Biografia Giorgio Gaber

"Io G. G. sono nato e vivo a Milano..."

La storia di Giorgio Gaberscik, in arte Gaber, comincia il 25 gennaio 1939 in via Londonio 28, a Milano.

"Arrivo in via Londonio... non c'è più la casa.
Ho sbagliato strada, fammi vedere: 24, 26... maledizione, manca il 28!
Non c'è più la casa, ho perso la casa. Dove l'ho messa?"
(da "Dove l'ho messa", in "Anche per oggi non si vola", 1974-'75)

- (...) Sono cresciuto in una famiglia piccolo-borghese, in una piccola casa, con le abitudini e il tenore di vita di allora (...) si aveva un paio di scarpe sole e quando queste finivano se ne compravano delle altre, il che era certo un buon segno. Sacrifici, sicuro, ma all'insegna di un'essenzialità che oggi in qualche modo potremmo anche rimpiangere. Mio padre era impiegato (...) mia madre era casalinga, e mio fratello Marcello, più grande di me di sette anni, si era diplomato geometra e suonava la chitarra. Mio padre suonava un po' la fisarmonica, quindi un minimo di musica in casa c'era. Io poi, che avevo avuto un'infanzia piena di malattie e di rotture di coglioni tra cui un infortunio a una mano, usai la chitarra anche come sostegno e recupero del mio inserimento. (...) Io direi che tutta la mia carriera nasce da questa malattia, la quale ha fatto sì che abbia voluto reagire ad essa con la chitarra, portandomi così a fare questo lungo percorso nella musica. (G. Harari, "Giorgio Gaber", Rockstar - gennaio 1993)

Inizia a comporre, quando è ancora studente.

– (...) Mi accosto alla chitarra come momento di divertimento, di svago, non ancora di professione, anche perché vado ancora a scuola in quel periodo. La mia prima veglia come chitarrista la faccio a quattordici anni, guadagno 1.000 lire, la mia paga di chitarrista per quel Capodanno, e in quel momento non ho nessuna intenzione di cantare, non mi sfiora proprio il dubbio (...) fino al momento dell'incontro con Celentano, perché io ero proprio il chitarrista di Celentano. (...) Jannacci c'era anche lui, anche lui era studente come me, eravamo tutto un gruppo intorno a questo Celentano, questo strano personaggio che ci chiamava a suonare e ci dava anche i primi soldi che guadagnavamo; lui sceglieva noi anche perché eravamo dei musicisti che conoscevano il jazz, dato che i musicisti delle balere in quel periodo suonavano veramente solo tanghi e valzer; noi eravamo invece un po' più disponibili (...) a fare delle cose un po' più rockeggianti. (...) In seguito io continuai a suonare in uno di questi locali milanesi come chitarrista, in un gruppo che si chiamava "Rocky Mountains Old Time Stompers" e che faceva musica western (...) in quel momento diventai cantante di rock'n'roll, continuando comunque a suonare, a suonare e a cantare insieme, e via via che incidevo e che mi concentravo più sul canto, mi accorgevo che la chitarra perdeva via via peso, perché poi in effetti era il timbro della voce che contava. (L. Ceri e G. Martini, "Il signor G suona la chitarra", Chitarre n.51 - giugno 1990)

Chitarrista, autore e interprete della prima canzone rock in italiano (1958). L'esordio discografico avviene con "Ciao ti dirò", scritta con Luigi Tenco e incisa dalla casa Ricordi; legata a questa canzone è la prima apparizione televisiva di Gaber nel programma "Il Musichiere" di Mario Riva, nel 1959.

– (...) "Ciao ti dirò" in realtà l'abbiamo scritta io e Tenco. Lui improvvisava molto ogni sera sui temi rock americani, specialmente su "Jailhouse Rock" di Presley, e da là ci venne l'idea di mettere le parole in italiano su una di queste improvvisazioni, abbiamo cambiato e fissato un po' la musica ed è venuta fuori "Ciao ti dirò", era l'estate del 1958. Io avevo un gruppo con Tenco, ancora precedente ai "Cavalieri", a Genova suonavamo in un locale con una sorta di trio alla Nat King Cole, basso, chitarra e pianoforte, e cantavamo un po' tutti, avevamo fatto una stagione estiva insieme, io infatti in quell'anno mi ero appena diplomato. Poi un signore della Ricordi, sul cui biglietto da visita c'era scritto Giulio Rapetti, mi chiamò perché voleva farmi incidere dei dischi, così andai a fare il provino e mi chiesero di cantare qualcosa. (...) Io fui praticamente il primo a fare un rock italiano, ad imitazione di un altro cantante, che faceva un altro genere di musica ma che era sempre in qualche modo rockeggiante, e che era Tony Dallara. (L. Ceri, "Gaber 40 anni di carriera", Chitarre n.153 - novembre 1998)

Nel 1959 al Santa Tecla – noto locale milanese, quasi una "cave" parigina – conosce Sandro Luporini che sarà il coautore di tutta la sua produzione discografica e teatrale più significativa.

– Conosco Sandro da quando avevo 19 anni. Per me, è stato un maestro di estetica. (...) Eravamo ragazzi, vicini di casa a Milano. Io frequentavo un gruppo di pittori e ci incontravamo per scambiarci idee. Nel gruppo c'era Sandro, più grande di me (...). Abbiamo cominciato a scrivere per gioco, io facevo il cantante televisivo e le canzoni che scrivevamo non erano adatte, ma al primo spettacolo teatrale lui già c'era (...) anche se allora non firmava, perché non era iscritto alla Siae. Per la verità qualche canzone a quattro mani l'avevamo già scritta. Per esempio "Barbera e champagne". Ma era ancora una collaborazione sporadica. (B. Schisa, "Vi presento il pittore che scrive le mie canzoni", Il Venerdì di Repubblica 12/10/2001)

Negli anni '60 la stesura di alcuni tra i testi di maggior successo di Gaber è a cura dello scrittore Umberto Simonetta: ballate ispirate al repertorio popolare milanese ("Porta Romana"; "Trani a gogò"; "La ballata del Cerutti"; "Le nostre serate", che piacque molto a Eugenio Montale, come ricorda lo stesso Simonetta nel libro "Il signor Gaber" di Michele L. Straniero del 1979; "Il Riccardo"; "Una fetta di limone", cantata insieme a Jannacci in versione "I due corsari").

– Ci fu anche un'altra formazione in trio, sempre con Maria Monti, e con me c'era Jannacci ma a quel punto già stavamo facendo del cabaret, "La balilla", "Goganga", queste cose qui. Jannacci suonava il pianoforte, però era sempre molto brillante e spiritoso, e una sera che io non potevo esserci perché dovevo fare una serata coi "Rocky Mountains", gli dissi: "Beh, 'La balilla' stasera cantala tu insieme a Maria, perché secondo me è un pezzo che funziona, e va comunque fatto". Così Jannacci cantò "La balilla" e fu molto più divertente di me, ed è praticamente in quell'occasione che comincia la sua carriera di cantante. (L. Ceri, "Gaber 40 anni di carriera", Chitarre n.153 - novembre 1998)

Quando Gaber inizia a cantare, Milano è in una fase di originale crescita culturale: ci sono Dario Fo, Paolo Grassi, Giorgio Strehler, Franco Parenti. Nasce proprio in questi anni la definizione di 'cantautore' nell'ottica della rivalutazione del testo della canzone, sull'onda delle risonanze della canzone francese e in antagonismo con la musica leggera della tradizione italiana melodica.

– (...) Nel '60 c'era Maria Monti, con la quale avevo una storia anche sentimentale, c'era Luporini, poi c'era Endrigo, i cantautori di quel periodo. (L. Ceri, Il sogno di Giorgio Gaber, Il Mucchio Selvaggio n.188, settembre 1993)
- (...) Scoprimmo il mondo della canzone francese e non solo il Brel che tanto amava Paoli ma anche ad esempio Henri Salvador, che aveva una splendida canzone, "Dans mon ile", a quel punto sentivamo di poter dire delle cose, sulla falsariga di quella chiave espressiva (...) tutti quanti abbiamo fatto un piccolo passo in avanti ed abbiamo cominciato a prendere le cose sul serio, perché prima veramente si scherzava. Nessuno pensava fino a quel momento che quel tipo di divertimento potesse diventare una professione. (L. Ceri, "Gaber 40 anni di carriera", Chitarre n.153 - novembre 1998)

– (...) Tutti quanti affrontammo il discorso cantautorale di quegli anni come una soluzione a metà tra le influenze americane subite fino a poco prima e questa canzone francese che via via ci aveva affascinati. Dunque nel '60 cominciano ad esserci "La gatta" di Paoli, la mia "Non arrossire", "Quando" di Tenco, poi Bindi con "Il nostro concerto", "Arrivederci", canzoni che in qualche modo si staccano da una colonizzazione totale da parte dell'America, e cercano di riacquistare un'autonomia e una sincerità, non dico culturale, ma certamente di intenti. (G. Harari, "Giorgio Gaber", Rockstar - gennaio 1993)

Dopo gli inizi brucianti, Gaber amplia i suoi interessi artistici; diventa molto popolare: partecipa a quattro edizioni di Sanremo (1961: "Benzina e cerini"; 1964: "Così felice"; 1966: "Mai, mai, mai Valentina"; 1967: "...E allora dai!"); nell'estate 1966 ottiene il secondo posto al Festival della Canzone napoletana col brano "'A Pizza". Il pubblico televisivo lo scopre e lo apprezza in rubriche musicali e spettacoli di cui è ideatore-cantante-conduttore, come "Canzoni di mezza sera" (1962), "Teatrino all'italiana" (1963), "Canzoniere minimo" (1963) – una delle prime trasmissioni dedicate alla musica popolare e d'autore –, "Milano cantata" (1964), "Questo e quello" (1964), "Le nostre serate" (1965), "Diamoci del tu" (1967), "Giochiamo agli anni Trenta" (1968), "E noi qui" (1970) – varietà del sabato sera sulla prima rete – dove propone alcuni pezzi scritti con Sandro Luporini che troveranno poi un ambito più congeniale a teatro, nell'esordio con "Il signor G".

– (...) Io da parte mia avevo già iniziato un'attività televisiva, al di fuori della semplice partecipazione agli spettacoli: facevo il presentatore, conducevo ed ideavo le trasmissioni, per cui in qualche modo ne risentivo meno di questa 'empasse', però si tentava comunque un'operazione di resistenza, non perché il beat non ci piacesse, ci mancherebbe altro, ma perché in effetti sentivamo che era un prodotto non nostro e volevamo comunque difendere la nostra identità. (L. Ceri, "Gaber 40 anni di carriera", Chitarre n.153 - novembre 1998)

Nella vita personale di questi anni: nel 1965 sposa Ombretta Colli; nel 1966 nasce la figlia, Dalia.

- C'erano stati i beatnik, il rock'n'roll, i primi dischi che i ragazzi comperavano da soli senza i genitori. E poi sono gli anni in cui mi innamoro. Ombretta studiava cinese e russo alla Statale, io andavo a prenderla con l'auto da cantante, con la Jaguar, e loro per questo non dicevano niente. Di quegli anni mi avevano colpito soprattutto due parole che sentivo ripetere molto spesso: rifiuto ed essenzialità. (F. Poletti, "Giorgio Gaber: i miei cattivi pensieri", Specchio 21/4/2001)

Nel '68 Gaber è un cantante affermato. Fa centinaia di serate ogni anno (con un calcolo approssimativo si arriva a 1.660 dal dicembre 1958 allo stesso mese del '69), molta televisione, rilascia interviste.

– [...] Sono sempre in arretrato su tutto e quanto mi è intorno lo osservo in funzione della canzone. Come il cinema, dove dovrei andare a distendermi e invece m'interessa il modo di muoversi degli interpreti, le inquadrature da poter usare in uno spettacolo, da poter ricordare per una interpretazione. Così un libro, un fumetto, una partita di calciobalilla. Perché tutto riconduco a esperienze personali, a sensazioni che ho avuto anche se raccontate in trame diverse. (M. A. Teodori, "La giornata nera di Gaber", Radiocorriere TV, 16-22/4/1967)

Nel biennio 1969-'70 è protagonista di una tournée teatrale con Mina.
Ha inizio la svolta artistica: l'impegno teatrale, la rinuncia cosciente oltre che alla televisione anche all'attività discografica e la scelta del teatro, appunto, come luogo di espressione diretta senza condizionamenti o filtri tra l'artista e il suo pubblico. Da questo momento, il percorso di Gaber è lineare e conseguente: fare della canzone non più un fine, ma un mezzo da adattare alla forma di comunicazione teatrale.

– Va beh, ero molto più popolare di ora, c'era il danaro, la gente che ti riconosceva. Ma non ho approfittato di quel momento perché mi interessava altro. Dopo un tour di due anni con Mina ho scoperto il teatro, la gente che ti viene a sentire e guardare. Ho capito che volevo fare quello. Mi piaceva Dario Fo, ma volevo essere diverso da lui. (...). Però devo dire che non c'erano solo queste cose, si sentiva l'aria dell'impegno. (F. Poletti, "Giorgio Gaber: i miei cattivi pensieri", Specchio 21/4/2001)
– (...) Io e Luporini siamo stai coinvolti nel '68 perché ha prodotto una grossa svolta nelle scelte della gente. (...) Questo tipo di cambiamento del costume – non vogliamo più la cravatta e la giacca – allora era una risposta. Non vogliamo lavorare come dei pazzi per avere un giorno lo champagne, perché dello champagne non ce ne frega nulla. Adesso si dice: "Vogliamo lo champagne senza lavorare". Ma allora questo tipo di movimento giovanile a noi ci colpì moltissimo, pur ideologizzandosi subito. Il rifiuto è stato l'elemento meno sottolineato, immediatamente si è ritornati, ci si è rapportati, a un piano politico di lotta, quindi studenti legati agli operai, scioperi, salari. Sì, salario, ma salario per che cosa? Per comprare che cosa? Per vivere come? Per quale indirizzo culturale? E oggi ci troviamo in queste condizioni. Secondo me questo è l'aspetto interessante del '68, così come da qui derivano gli errori che sono stati fatti, anche del rifiuto iniziale che diceva: "No, io non vivo nella casa di mio padre, bella, ricca, con la moquette". Adesso invece non è più così, vorremmo vivere tutti in una casa con la moquette, con lo stereo, e dato che non abbiamo i soldi, facciamo casino. (C. Bernieri, "Non sparate sul cantautore", Mazzotta editore, Torino 1978)

L'originale percorso artistico della "canzone a teatro" prende il via dallo spettacolo "Il signor G" che debutta il 22 ottobre 1970 al Teatro San Rocco di Seregno, nell'ambito del decentramento regionale del Piccolo Teatro di Milano, con la regia di Giuseppe Recchia e la direzione musicale di Giorgio Casellato (amico di Gaber fin dai tempi delle prime esibizioni nei dancing di Milano e dintorni e arrangiatore musicale di tutti i suoi primi spettacoli teatrali).

- Nei primi anni '70 decisi, quasi spontaneamente, di abbandonare la tv. (S. Salis, "Una generazione di sconfitti che sbanca le classifiche", www.affaritaliani.it 2001)

– (...) L'attività più congeniale alle mie aspirazioni ed al mio modo di essere (...) era proprio il teatro: lì si sarebbe potuto manifestare il mio eclettismo. Così, decidemmo con Luporini di far nascere "Il signor G" e di provare una piccola tournée teatrale. Capii che potevo vivere così e che quella era la mia strada. Vivevo meglio. Per questo ho abbandonato la televisione. All'inizio ebbi un po' di paura, perché dopo i "pienoni" con Mina nessuno veniva più a vedermi. Però, nonostante lo shock, dentro di me sentivo che era giusto farlo. (A. Scanzi, "Anche per oggi non si vola", Mucchio Selvaggio marzo 1999)

Il successo del 'signor G' è qualitativo ma non quantitativo. Evidentemente il pubblico del Gaber televisivo non è lo stesso che frequenta i teatri, ma alla fine delle rappresentazioni gli applausi sono calorosi e il pubblico presente si passa la voce fino a che, con "Dialogo tra un impegnato e un non so" (1972-'73), inizia la lunga stagione del 'tutto esaurito', che durerà, senza eccezioni, fino all'ultimo spettacolo. (Con "Il signor G", ebbe 18.000 spettatori; con "Dialogo tra un impegnato e un non so" toccò le 166 recite con 130.000 presenze; "Far finta di essere sani" in 182 recite raggiunse i 186.000 spettatori).

- Quando partimmo con "Il signor G" gli aspetti economici e organizzativi della faccenda erano tutti da inventare. A quei tempi il cosiddetto "decentramento" non si sapeva nemmeno cosa fosse: i teatri erano pochi, abituati a una programmazione di solida routine e per niente inclini alla sperimentazione. A parte Dario Fo, che aveva intuito e favorito la nascita di un pubblico nuovo e diverso, il circuito teatrale era quanto di più ufficiale e istituzionale si possa immaginare. (M. Serra, "Giorgio Gaber. La canzone a teatro", il Saggiatore, Milano 1982)

– "Il signor G" rappresentava (...) la sincerità. Io venivo da un mondo tutto diverso basato sulla logica dell'intrattenimento. Scegliendo il teatro ridussi ulteriormente il mio nome e creai una sintesi fra me e il personaggio. "Il signor G" – dove quella 'G' voleva anche dire "gente" – era un signore un po' anonimo, un signore come tutti che però mi assomigliava, in bilico fra un desiderio di reale cambiamento e un inserimento nella società perché aveva già una sua vita adulta un po' lontana da quella dei Sessantottini. Con 'il signor G' mi sono acquistato il grande privilegio di dire, di cantare in teatro quello che sono e quello che penso, al di là dei condizionamenti del mestiere dei quali prima risentivo. (...) L'idea di pormi con Luporini di fronte a una pagina bianca da riempire liberamente per poi andare a raccontare ciò che scrivevamo in un teatro, in assoluta libertà, è stata una grande conquista. (Maria Grazia Gregori, "Storie del signor G", L'Unità - Cabaret n.4 1996)

- Era tale la gioia, l'entusiasmo che mi procuravano questi nuovi incontri in teatro, economicamente tutt'altro che soddisfacenti! Perché questo va detto: quando smisi con la TV i teatri me li trovai vuoti, non pieni! Azzerata la mia immagine televisiva, mi ritrovavo senza alcun aiuto da parte della stampa, affidato al solo passaparola del pubblico, che allora era allucinante. Rifiutare la TV era un privilegio che potevo permettermi, avendo da parte qualche soldino, ma ricordo d'essere andato un anno in certi teatri e di aver fatto 100 persone, salvo poi tornarvi l'anno dopo e farne 2.000! C'era veramente un bisogno di qualcosa che non fosse la televisione, grande dominatrice invece degli anni Sessanta, e la mia è stata una conquista graduale, persona per persona, di un nuovo pubblico! (G. Harari, "Giorgio Gaber", Rockstar - gennaio 1993)

- Era un'idea nuova: "Il signor G" era uno spettacolo a tema, con canzoni che sviluppavano il tema, con monologhi, racconti, situazioni. Erano canovacci ricchissimi di spunti e provocazioni sulla situazione reale e di collegamenti con le questioni "eterne" del vivere. La gente si è vista arrivare addosso una forma ed un materiale di spettacolo "strano" a cui ha reagito come pubblico teatrale. Poi è arrivata la produzione discografica che era semplice registrazione degli spettacoli. Insomma abbiamo aperto un nuovo canale di comunicazione. (W. Gatti, "Parlo in grigio", Il Sabato 20/7/1991)

Dalla lettera-presentazione di Davide Lajolo allo spettacolo "Far finta di essere sani" del 1973.

Caro Gaber,
avrei detto di no al tuo invito se ai tuoi spettacoli non mi fosse sempre accaduto di divertirmi ed emozionarmi. Emozionato e talvolta anche spinto alla polemica perché tu sei diverso, sei un uomo e la discussione è d'obbligo. Questa è anzi la tua cosa più pregnante: quella di aprire sempre un dialogo con le tue canzoni e di obbligare a delle risposte con i tuoi monologhi. Ma c'è di più: la tua invenzione che tutto si può difendere, la libertà, la dignità dell'uomo, l'amore, la felicità con la partecipazione. Questa grossa scoperta che tu canti convincendo di più che attraverso tanti discorsi e prediche, è nata in te dal tuo modo di voler bene e di esprimerti. Sei rimasto l'operaio che cesella il suo capolavoro in una fabbrica che ha aperto le porte sulle piazze delle città e dei paesi e sei divertente proprio perché non cerchi l'evasione o la finale a lieto fine, ma anche quando canti l'amore di Maria e ti ostini a parlare di Maria hai tanta umanità che, chi t'ascolta, si sente preso dalla tua semplicità e anche, lasciamela dire la parola grossa, dalla tua filosofia. Caro Gaber, lo so che a dirtelo tu abbassi il viso perché sei modesto dentro, ma tu sei un uomo di cultura anche se l'unico motivo fosse questo: che ti chiedi costantemente perché stai al mondo. (...)

Da ora in avanti, ogni spettacolo di Gaber rappresenta una tappa del suo processo evolutivo individuale, di presa di coscienza e di analisi della realtà. Un processo di progressivo approfondimento del mezzo e delle possibilità espressive che vengono strutturalmente supportate da percorsi di scrittura sempre più articolati e complessi: macro-canzoni e interventi recitativi, dove anche il momento della composizione musicale si adatta, con uno stile eclettico difficilmente catalogabile, ai diversi registri interpretativi richiesti dall'attore-cantante: dall'ironico al tragico, dal sentimentale all'elegìaco, dall'introspezione all'invettiva.

- (...) In teatro ogni canzone è, musicalmente, un'avventura inedita. (...) Il problema fondamentale è che devi fare colpo subito, devi importi a tutti i costi all'attenzione della platea, altrimenti è un guaio. E devi ottenere questi risultati con un prodotto che il pubblico non ha mai ascoltato in precedenza, che gli giunge completamente nuovo. Così alcuni lussi che ti puoi permettere sul disco, dove confidi in una maggiore possibilità di "comprensione" da parte di chi ti può ascoltare più di una volta, in teatro te li devi scordare. Hai bisogno di una musica che sia insieme semplice, immediata e molto suggestiva, che catturi l'attenzione del pubblico e non la lasci più fuggire. Così, piano piano, impari a usare un linguaggio nuovo, diverso, a misura di teatro. Una delle regole fondamentali, per esempio, è la necessità di usare diversi "archi" espressivi anche all'interno di una canzone breve: per questo il "crescendo" è una pratica ricorrente nel mio teatro, mentre è rarissimo che io mantenga per tre o quattro minuti consecutivi un clima teso, fermo, immobile. Ecco, direi che il teatro ti costringe a "muoverti", e a permeare di questo movimento anche la musica. E ti accorgi che il nuovo linguaggio, mano a mano che te ne impossessi, ti offre, come interprete, infinite possibilità in più, proprio perché mette alla prova la tua capacità di adattarti a una gamma di toni molto più ampia, a sbalzi improvvisi, a rovesciamenti di fronte. (M. Serra, "Giorgio Gaber. La canzone a teatro", il Saggiatore, Milano 1982)

Dal 'signor G' in poi (tranne alcune rarissime eccezioni) tutta la produzione discografica assume il valore di documentazione del lavoro teatrale, fino alla totale auto-produzione (dal 1996 al 2000, le registrazioni degli spettacoli sono in vendita esclusivamente nel teatro della rappresentazione), a conferma del fatto che l'interesse di Gaber è soprattutto volto alla verifica diretta con il pubblico. E il pubblico ricambia con un numero di presenze agli spettacoli senza precedenti nella storia del teatro italiano, pur non essendo sollecitato dalla pubblicità attraverso i canali consueti di diffusione promozionale, di cui Gaber non fa uso (alcuni dati solo indicativi: dal 1972 al 1982, accumula la vertiginosa cifra di due milioni di biglietti venduti; nel 1991, in una stagione de' "Il Grigio", arriva a 170.000 spettatori in 150 spettacoli; riceve il riconoscimento "Biglietto d'Oro Agis-Minerva 1994-'95" per il consistente rapporto col pubblico in quella stagione teatrale).

– (...) Sicuramente l'idea del disco in sé non mi interessa, proprio perché non è il mio mezzo, il mio mezzo è la canzone-teatro, la prosa che poi è diventato il mio linguaggio. Forse l'unico disco vero che ho fatto era "Non arrossire" che era del '60, perché già 'il Cerutti' possedeva un'altra valenza. (G. De Grassi, "Dialogo tra l'arte e il non so...", Blu 1992)

La voglia di dire e di dare potenzialità alle idee, l'autonomia del linguaggio e il rigore della rappresentazione sono la garanzia di serietà e coraggio che il pubblico gli riconosce. Ma oltre la bravura dell'interprete e l'importanza dei testi, nel teatro di Gaber è il "fatto" che risulta interessante: accade che l'intensità del coinvolgimento è tale che lo scambio di energia tra Gaber e il pubblico si fa "materia": sul palco e in sala muta la qualità del clima, durante e dopo lo spettacolo... e ciò che avviene va ben oltre la bella serata a teatro.


Rievoca Nanni Ricordi nel libro di M. Straniero "Il signor Gaber" (Gammalibri, Milano 1979):

"Secondo me in Gaber c'è una capacità magnetica di comunicazione: lo vedi sul palco... Io l'ho vissuta anno per anno, riincontrandolo: cioè lui ha anche la capacità magnetica che passi due ore a chiacchierare con lui e scopri che è un bel parlare, perché è un parlare del sé, veramente, e questo lui lo trasmette... Poi ci ha 'sta capacità magnetica di captare e la capacità fisica di trasmettere anche fisicamente... c'è una coscienza in lui, che ha coscienza di essere divisa, perciò è matura (...) pensando a Giorgio, così, quando l'ho conosciuto io, nel '58, suonatore di chitarra rock, poi cantante rock, era effettivamente un'altra persona, ma come lo ero io, come lo eravamo tutti. Io l'ho ritrovato dopo un po' di anni, ho ritrovato lui con la stessa carica del far musica come fatto fisico, e lui con un cervello, con un 'tutto' suo - voglio dire - che è cresciuto in un modo straordinario".

- Ci si potrebbe addentrare in una definizione di cultura... Per me cultura è un "modo di interrogazione". (...) Posso dire che in ciò che serve a me, esistenzialmente, l'interrogazione è centrale, per capire di più di sé, del mondo. Il fascino di questo mestiere d'artista è proprio avere dentro questa... cosa, questa interrogazione. (W. Gatti, "Parlo in grigio", Il Sabato 20/7/1991)

– Il mio personaggio è un me stesso che tende all'oggettivazione di me stesso: non è un me stesso reale, con i miei tic ed i miei nei. È proprio un personaggio che io proseguo: è questo 'signor G' che cito all'inizio, che è nato negli anni Settanta e che, quindi, in qualche modo, ha molto a che vedere con me, anche se, naturalmente, può essere un me stesso in situazioni diverse. In quello che dico, credo di attingere molto, anche dal punto di vista della recitazione, dai miei modi della vita. Quando recito non mi dico: in questo personaggio devo entrare gobbo e faccio Riccardo III: no, entro normale. È come se il mio teatro non avesse soltanto la barriera di quello che accade sul palcoscenico e della gente che lo vede, ma tenesse conto che c'è un uomo che esce dal camerino, che va sul palcoscenico e dice: siamo qua, parliamone e vediamo un po' cosa succede. Siamo soltanto questa gente che si ritrova in un teatro: a me sembra di avere delle cose da dire e le dico; è un meccanismo molto semplice. (C. Canovi e F. Azzali, " Giorgio Gaber", Centro di Poesia e Cultura di Reggio Emilia - 1994)

- Esistono due modi di far spettacolo: o vai sul palcoscenico per farti vedere (e quindi affermi te stesso), o ci vai perché cerchi una comunicazione col pubblico. Non dico che con noi in teatro si formi un'appartenenza, ma certo nasce qualcosa che ne fa parte. Sa perché alla fine io grido, faccio queste smorfie, ho queste reazioni? Perché mi vergogno, e mi vergogno perché sono stupito di questo riconoscimento che avviene tutte le sere su cose che io e Luporini abbiamo in qualche modo scoperto per noi stessi. È questo che rende il mio mestiere uno dei più belli che si possano fare. Cosa volere di più, per 120 sere all'anno? (M. Bernardini, "Gaber. Alla ricerca dell'Io", Tracce maggio 1999)

– Una volta finito lo spettacolo c'è una specie di rilassamento in tutti, una specie di abbandono della concentrazione che bene o male ti è imposta, per cui c'è questo lasciarsi andare, che anche per me è molto piacevole fisicamente, e credo che si avverta; diventa uno stare insieme, si supera lo spettacolo e si sta insieme. (...) Alla fine mi verrebbe da chiedere "come siete stati?" più che "vi è piaciuto?". È un atteggiamento un po' diverso: è lo stare insieme che diventa prevalente. Non credo, anzi escludo, che sarebbe lo stesso se facessi uno spettacolo solo di bis: è proprio perché c'è prima uno sforzo da parte di chi ascolta e di chi esegue, una specie di compressione a favore di un approfondimento di certi temi, di certi discorsi, di certe emozioni, che alla fine il rilassamento diventa piacevole per tutti, e credo che il senso dei miei bis sia proprio questo. (L. Ceri, "Il sogno di Giorgio Gaber", Mucchio Selvaggio n. 188, settembre 1993)

Si delinea la strada di un genere di rappresentazione composito, la costruzione di un progetto e di un lungo discorso: un "teatro d'intervento" sull'oggi, dove ogni spettacolo tratta temi diversi attraverso il linguaggio autonomo della canzone a teatro.

– (...) Direi che dal "signor G" in avanti esiste un percorso molto conseguente. Poi, "Libertà obbligatoria", ti ripropone la tua responsabilità individuale, si scaglia contro le finte aggregazioni – questo fasullo desiderio di una falsa coscienza – e ti ributta in faccia una tua responsabilità individuale, perché oggi che la produzione ti divora e ti entra nei polmoni, è diventata una battaglia da fare nelle piccole cose, nei propri gesti. (C. Bernieri, "Non sparate sul cantautore", Mazzotta editore, Torino 1978)

- Saccheggiamo moltissimi autori: da Adorno a Céline, da Pessoa a Cioran, da McEwan a Grandes, da Laing a Cooper; prendiamo un po' da tutti perché il nostro scopo non è quello di scrivere per il teatro, ma quello di scrivere per Gaber. Non ci arroghiamo il ruolo di autori, ci piace soltanto sviluppare insieme dei ragionamenti partendo da alcuni spunti. (C. Pino, "Amico treno" - 'Da Goganga al Dio bambino', Baldini & Castoldi 1997)

Il "Teatro Canzone" è il 'genere' espressivo assolutamente originale nel percorso artistico di Giorgio Gaber: la canzone – così intesa – è in realtà l'unione tra un testo che ha in sé un suo racconto preciso e una musica che ne amplifica il fatto emotivo. Il teatro è un ulteriore mezzo per aumentare la resa emotiva del concetto: il testo, la musica, le luci, il palcoscenico, tutto è in qualche modo in funzione di un allargamento emotivo.

- Dario Fo è stato un maestro con i suoi preamboli, quelle lunghe chiacchierate poste all'inizio dei suoi spettacoli. Jacques Brel è stato un maestro per via di quel suo canto interpretato più da attore che da vocalist. Anche Eduardo, con la sua geniale lentezza, è stato un maestro. E forse certi cantanti come Bécaud, come Aznavour. Rispetto alla canzone francese però, Luporini ed io abbiamo avuto un'audacia in più: vi abbiamo talmente creduto da trasformarla in un mezzo di comunicazione immediata. Non quindi la canzone che si ascolta ripetutamente come testimonianza di costume di una certa epoca e che proprio attraverso il ripetuto ascolto provoca in te tutta una serie di ricordi e di emozioni. (M. G. Gregori, "Storie del signor G", L'Unità - Cabaret n.4 1996)

Negli spettacoli dei primi anni '70, i monologhi erano ancora solamente dei raccordi recitati tra le canzoni. La crescita e l'affinamento del mezzo espressivo modifica la scrittura dei pezzi in prosa, che assumono nel tempo una dignità autonoma parallela alle canzoni, dando vita ad una forma di recital che, attraverso il corpo scenico di Gaber, dà ancora maggiori possibilità espressive della commedia o del grande monologo. I monologhi e le canzoni sono come tanti spunti collegati emotivamente tra loro che affrontano le tematiche più rilevanti, i problemi sociali più 'urgenti' di un certo periodo: Gaber analizza di volta in volta le istanze più sensibili, propone degli interrogativi, smaschera le contraddizioni, denuncia i disagi dell'individuo facendosene carico e raccontando (da diverse angolazioni e spesso attraverso la chiave dell'ironia) quello che accade, dentro e fuori di noi.

- Un recital per me è una specie di panoramica delle cose che mi hanno colpito o stimolato di più nell'anno: una trasfigurazione a livello musicale di uno sfogo che uno ha dentro e che fa esplodere in una serie di canzoni, in una situazione che poi diventa teatrale. (F. Zampa, "Individuo, vieni fuori", Il Messaggero 29/10/1983)

- Guardo molto dentro me stesso: non è rabbia. È autoanalisi. Serve a farmi capire gli altri, ma anche serve a me per resistere all'omologazione imperante. (Si. Ro., "Gaber: ora sono un laureato del teatro", La Stampa 1/6/1989)

- Quando canto c'è un po' più di energia e quindi è più una festa; quando recito c'è un po' più di concentrazione e quindi più profondità. (...) Quando non lavoro mi annoio molto. Cerco di distrarmi continuando a pensare al lavoro: lo stacco totale in un certo senso mi deprime. Per fortuna la tipicità del mio mestiere "obbliga" a raccogliere informazioni, esperienze in tutti i momenti e in tutte le situazioni che si creano durante le giornate di riposo. (C. Pino, "Amico treno" - 'Da Goganga al Dio bambino', Baldini & Castoldi 1997)

- Porto avanti da otto anni un mio lungo "recital" e oggi avrei bisogno forse di esperienze diverse. Non dico che ho concluso un periodo, ma sicuramente il mio ultimo spettacolo è stato un punto d'arrivo. Ho incominciato accennando a un tic, poi ho visto che era una peste, e ho finito parlando di un cancro. (...) E poi anche il linguaggio e le parole si modificano, devi sempre aggiustare il tiro. Ho bisogno di una specie di testo mobile che segua da vicino una realtà che cambia. In questo senso io faccio, non ho paura di dirlo, un esperimento pressoché unico di canzone che ora è sempre più vicina al teatro che alla musica. (M. Porro, "Gaber: sono un filosofo ignorante", Corriere della Sera 4/6/1978)

Nel novembre del 1980 Gaber pubblica con una piccola etichetta indipendente e dopo lunghe vicissitudini, "Io se fossi Dio", un 'singolo' di 14 minuti. La canzone, scritta in seguito all'uccisione di Aldo Moro e pubblicata più tardi per ragioni di censura, è concepita come un violento esplicito pamphlet contro il grigiore della scena italiana contemporanea e va considerata come il momento culminante di un'intera fase del lavoro di Gaber e Luporini. Il brano viene inserito nello spettacolo "Anni affollati" (1981-'82) che chiude una prima parabola di intervento sul sociale del "Teatro Canzone".

– Certe volte mi chiedo perché non me ne resto più tranquillo, perché non mi metto a scrivere cosette rasserenanti, magari gioiose. Poi mi guardo intorno, vedo che ci stiamo tutti abituando al grigiore, alla piattezza, alla rassegnazione, e mi accorgo che il mio compito, il mio lavoro, è quello di dire le cose che gli altri non dicono. Le cose che voi giornalisti non avete più il coraggio di scrivere. Vorrei sapere, per esempio, perché fino a qualche anno fa si poteva parlare liberamente di Moro, dicendo che anche lui è responsabile del disastro in cui ci troviamo, mentre oggi non si può più. La retorica ufficiale, la pietà istituzionale, ci impediscono di avere reazioni spontanee, umane. Anche di provare pena, dolore (...). Cercheremo di spiegare che questa voglia di Dio è soprattutto una voglia di avere una spinta, un desiderio morale. Voglia di credere, voglia di esistere. Non ci interessa collocarci al di là del bene e del male, come quei nostri amici che ascoltando "Io se fossi Dio" ci chiedevano: ma chi ve lo fa fare? Perché prendersela tanto? Loro pensano che non sia il caso di indignarsi. Che va bene tutto. E invece no: va bene un cazzo. Se non si lotta per cercare una ragione, per inseguire la chiarezza, tanto vale crepare. Anch'io mi diverto molto a giocare a palla. Ma per due ore al giorno, non per dodici. (M. Serra, "Giorgio Gaber. La canzone a teatro", il Saggiatore, Milano 1982)

Con gli spettacoli degli ultimi anni '80, Gaber e Luporini cambiano registro, sperimentano la prosa con un "Teatro d'evocazione" dove l'attore, solo in scena, fa rivivere attraverso il monologo personaggi e situazioni che sono nella sua memoria.
Attraverso il personaggio solista che riflette e comunica i propri pensieri, il dialogo è sintetizzato all'essenziale, si ricostruisce un percorso più letterario. Non è il monologo del teatro classico: è l'io interiore che parla.
"Parlami d'amore Mariù" (1986-'88) è un racconto a struttura aperta con brevi atti unici in forma monologica e canzoni che costituiscono un'ampia indagine sulla tematica dello spettacolo.

– (...) Se vai in piazza e vedi delle bandiere rosse e bianche unite intorno alle Istituzioni per difenderle dalle Brigate Rosse, puoi anche provare un tale disagio che scrivi una canzone come "Io se fossi Dio", ma non per questo fai una azione politica. Così "Parlami d'amore Mariù" non è una finestra sul privato; è una perlustrazione nell'intimo che può svelare come certi sentimenti, anche l'amore, siano solo delle illusioni, delle forme di isteria, curiosi coaguli che vivono dentro di noi ma separati dal nostro cuore, fantasmi che coprono altri fantasmi... Per esempio, si può capire perché, quando viene a mancare una persona cara, subito dopo si potrebbe indifferentemente ammazzarsi o andare al cinema. (A. Bandettini, "Ed ora vi racconto i sentimenti di un uomo di oggi", La Repubblica 28/10/1986)

– (...) Qui (in "Parlami d'amore Mariù", n.d.r.), io e Luporini, abbiamo avuto minori riferimenti: la scelta del piano teorico è molto ridotto. Sì, se vogliamo, c'è la citazione di Botho Strauss nella "Donna al balcone", un qualche piccolo riferimento a Céline... La differenza col passato, è che lì c'era il desiderio di sostenere un qualche piano teorico. Qui, dato il tema della nostra, attuale, discontinuità dei sentimenti, questo piano teorico ci è sembrato meno utile. (A. M. Mori, "Giorgio Gaber. Il piacere dei sentimenti", La Repubblica 6/11/1987)

"Il Grigio", in scena nelle stagioni teatrali dal 1988 al '91, è un vero e proprio racconto in prosa (con il quale, nel 1989, vince il premio teatrale Curcio come miglior attore).

- Affronto l'oggi con tutti i suoi problemi, gli stessi problemi che appartengono a ognuno di noi, giovane o ex giovane che sia. Rifiuto e combatto questa volgarità dilagante. Racconto il disgusto generale, la difficoltà di dar battaglia al nemico, perché non esiste più un nemico immediatamente identificabile. Il nemico è ormai dovunque, anche dentro di noi. E per meglio individuarlo, bisogna inventarsene uno. Magari un topo. (A. Pieracci, "Signor Gaber, mi manda papà", La Stampa 18/4/1989)

Nel 1989-'90, una parentesi: "Apettando Godot" con Enzo Jannacci, dopo trent'anni da "I due corsari" (rivisitati un po' per gioco nel 1983 come "Ja-Ga Brothers").

- (...) Io sento che Beckett sia sempre stato un mio maestro, per quanto mi riguarda. Sul piano della scrittura teatrale, tutto il teatro contemporaneo non può non tener conto che c'è stato Beckett, ecco. Così, pur non essendo stato molto divulgato, è un classico. L'avvicinamento a Beckett, inoltre, mi dà la possibilità di lavorare con Enzo, quindi di allargare le mie possibilità sul palcoscenico come attore. Mi sembra un bell'arricchimento, per me lo è. (D. Cohen, "Gaber-Jannacci 'Aspettiamo Godot'", Chorus giugno 1990)

Nel 1991, lo spettacolo antologico "Il Teatro Canzone", presentato al Festival estivo "La Versiliana" (che verrà poi pubblicato in quattro home video col titolo di "Storie del signor G".), ripropone parte del repertorio precedente col desiderio esplicito di verificare a distanza di anni l'attualità dei temi via via svolti, in considerazione anche del fatto che molte composizioni erano state eseguite in spettacolo una sola volta e quindi con una possibilità di espansione chiaramente limitata. Il recital offre una magnifica attualità, scandisce l'ineluttabilità delle passate e odierne incertezze, anche perché la cifra fondamentale dei testi di Gaber-Luporini è in definitiva sempre stata di tipo esistenziale, ovvero non ha mai creduto ad una netta distinzione tra l'uomo e le sue vicende socio-politiche.
Un Gaber perfetto che dimostra di avere ancora una volta ragione: l'ironia, la possibilità di "saltare il piano" e indagare sulla realtà da diverse angolature (un umorismo da situazione dove si mette in gioco se stessi in modo tutt'altro che gratuito), è la chiave necessaria per mettere a nudo le contraddizioni e i disagi dell'uomo e insieme il tentativo di esorcizzarli. Il lavoro di Gaber e Luporini, sia per il linguaggio sia per i contenuti, non solo mantiene un valore inalterato nel tempo ma anticipa concetti e idee destinate ad entrare nel patrimonio collettivo.

- Ti dirò una cosa: in questi ultimi tempi sto facendo anche il direttore artistico di un teatro e quindi in questa veste mi è capitato di incontrarmi varie volte con molti ragazzi, con molti giovani, e ho avuto l'opportunità di confrontarmi quindi con un pubblico che sicuramente è all'oscuro di buona parte del nostro ventennale lavoro. Ed ho avuto la sorpresa di constatare che a loro moltissime delle nostre cose risultano nuove ed attuali, come l'entusiasmo che ho sentito per una canzone come "Le elezioni", che per noi è ormai ovvia e scontata, e questo mi fa capire che non solo il contenuto della canzone è attualissimo, ma anche la musica, e in questo senso non ci sono state delle eccessive trasformazioni. Insomma questo tipo di rapporto di comunicazione tramite la canzone, che è un rapporto di primo ascolto, funziona ancora benissimo. E se è vero che queste canzoni sono indubbiamente legate a certi periodi e a certi spettacoli, alcune di esse possono essere tranquillamente riproposte anche oggi. (L. Ceri e G. Martini, "Il signor G suona la chitarra", Chitarre n.51 - giugno 1990)

- Del mio teatro, dei numerosi spettacoli di monologhi e canzoni che ho realizzato negli anni Settanta e Ottanta, l'unica testimonianza esistente era la registrazione discografica dal vivo degli spettacoli stessi; mentre sul piano dell'immagine, se si esclude una registrazione realizzata dalla Rai nel 1980, non esisteva praticamente niente. Ecco quindi la decisione di trasportare in video il mio teatro-canzone. Ho lavorato, come mia abitudine, con modalità che definirei quasi "autarchiche". Ho scelto un teatro e con Sandro Luporini e i miei musicisti ho rivisitato il repertorio che considero più interessante e più attuale; ho quindi chiamato una troupe televisiva con la quale ho studiato nei minimi dettagli le modalità per le riprese e infine ho aperto il teatro al pubblico. Così, in rapidissima sintesi, sono nate queste "Storie del signor G". (G. Gaber, "Sì alla tv, testimone del mio teatro", La Stampa 24/10/1992)

– Questo spettacolo nasce in modo particolare: volevamo fare un excursus, una specie – per carità, senza presunzione – di antologia di questi vent'anni di teatro. Devo dire che il pubblico ha reagito in maniera talmente positiva che io stesso, poi, ripercorrendo questi anni, ho trovato delle validità nei testi scritti precedentemente: mi hanno stimolato anche ad andare avanti e ad affrontare questo 'Teatro Canzone' come un appuntamento aperto (...), elaborando via via i brani che mi sembravano validi e che continuano ad interessare il pubblico. Lo spettacolo dà possibilità di rinnovamenti, si inseriscono motivi nuovi e, in effetti, si sente, anche dai testi, che alcune idee sono nate molto più di recente. Dall'estate scorsa ad oggi è cambiato perlomeno metà spettacolo: si chiama sempre 'Teatro Canzone' (sarebbe anche ingiusto chiamarlo in un altro modo, perché adotta la medesima formula), però cambia, si rinnova, al di là delle cassette già registrate: lo spettacolo cambia e si modifica ed arriva alla fine molto diverso da come è partito. Probabilmente potrà anche durare, essere presentato al pubblico per diversi anni, dal momento che è uno spettacolo che si rinnova. Può essere, perciò, un appuntamento interessante anche mantenendo il titolo "Teatro Canzone" (che però diventerà '93, '94, '95...) e riproponendo la stessa formula ad episodi. (C. Canovi e F. Azzali, " Giorgio Gaber", Centro di Poesia e Cultura di Reggio Emilia - 1994)

C'è anche un nuovo brano denso di rigore e tensione morale che, da solo, si fa manifesto del sentire taciuto da molti, "Qualcuno era comunista". La sensazione che ne scaturisce è che ora, con la caduta delle ideologie, l'individuo, da solo, subisca, e senza ricercare più una possibilità di riscatto. "Qualcuno era comunista" è un brano sulle motivazioni individuali di fondo del comunismo inteso come movimento politico, che risiedevano – nell'idea di Gaber-Luporini – nel desiderio di cambiamento, di miglioramento, nello slancio verso l'utopia.

- (...) La scoperta più interessante che ho fatto è che è molto difficile intervenire parlando delle tue idee, di quello che pensi o di quello che per te è il mondo. Un po' l'abbiamo fatto, ma più che altro erano delle indicazioni di un punto di vista delle cose. "Qualcuno era comunista" è stata quindi quasi una specie di necessità. Ecco, mi pare che da questa esperienza venga fuori che qualsiasi discorso teorico, qualsiasi discorso ideale in questo momento sia improponibile. Qualsiasi mancanza, qualsiasi disagio, qualsiasi fatica esistenziale sia necessario esprimerla. E allora io ho la possibilità di intervenire sull'oggi, nel senso di scrivere un tipo di spettacolo di considerazioni sull'oggi (...). Credo che si debba guardare proprio il disagio esistenziale che viviamo quotidianamente: l'extracomunitario che ti dà l'accendino piuttosto che i politicanti vari. Anche delle sensazioni fisiche, emotive. Ecco: quelle, secondo me, vanno raccontate, non devono essere abbandonate. È stato per questo che avevo smesso questo spettacolo, tra virgolette, di intervento. Proprio perché il bla-bla su questo o su quello, il pettegolume ci aveva stancato. Mentre poi va bene un discorso per cui "a me è caduto tutto, è caduta la sinistra, per cui ho una mancanza affettiva, ideale mia", questo lo posso dire, lo posso dare al pubblico. (G. De Grassi, "Dialogo tra l'arte e il non so...", Blu 1992)

- (...) Non è una canzone politica ma una pagina esistenziale, il racconto di un malessere. Accadde che una parte della mia generazione andò, per anni, verso un progetto utopico che chiamavamo comunismo. Forse impropriamente, visto che nessuno di noi mirava alla dittatura del proletariato, né alla Comune dei cinesi, né al riscatto dei contadini russi. Non era questione di schieramenti, ma di stati d'animo: quella cosa ci aveva preso emotivamente, ed accomunava persone divise da differenze enormi, perfino hippy e anarchici, che col comunismo non c'entravano per niente. Più che una dottrina, insomma, ci muoveva uno slancio, una grande speranza. E quando la speranza sparisce, non è che stai lì a pensare che c'è ancora Cuba, o che è nata Rifondazione: è finita l'utopia, se ne va l'illusione di poter agire, noi, per le generazioni che verranno. E allora rimani vuoto e solo, e chi se ne frega di Breznev o del delirio delle Bierre: ci fai su una canzone, non solo per raccontare la tua solitudine, ma per spiegare a te stesso che uno slancio non va mai rinnegato: sarebbe come buttar via, con l'acqua sporca, anche il bambino. (C. G. Romana, "Il signor G contro i partiti", il Giornale 6/11/1996)

Nel 1993 mette in scena "Il Dio bambino", una sorta di "romanzo teatrale" dove il monologo interiore sostituisce il dialogo e l'azione della prosa classica. Nel 1994 pubblica il libro "Gaber in prosa - Il teatro d'evocazione di Giorgio Gaber e Sandro Luporini" che raccoglie i testi di "Parlami d'amore Mariù" (compresi alcuni brani non rappresentati a teatro), "Il Grigio" e "Il Dio bambino".

- C'è un protagonista solo che racconta, rievoca. Ma quando l'emozione si fa forte, il racconto non è più al passato, diventa presenza viva, verità. Naturalmente dal suo punto di vista. Io chiamo questa drammaturgia 'teatro di evocazione' e penso che sia più adatta oggi a raccontare rispetto al dialogo e alle commedie tradizionali. (...) In realtà, come sempre nel mio teatro, il protagonista condivide molti dei miei attributi. Non mi sarebbe possibile una verità evocativa se non si trattasse di problemi che ho scoperto dentro di me. (U. Volli, "Un dio bambino per Gaber", La Repubblica 26/9/1993)

Dalla stagione 1995-'96 riprende il 'Teatro Canzone'. I testi degli spettacoli, dal 1996 al 2000, vertono via via sempre più sull'indagine e l'approfondimento del discorso sull'individuo: lo smascheramento delle contraddizioni che vive con se stesso e in rapporto alla società che lo induce a gesti omologati o comunque non antagonistici, oltre le apparenze, alla logica della produzione e del mercato. Solamente un'onesta presa di coscienza della realtà può far intravedere la possibilità di un cambiamento. Nel continuo tentativo di ritrovare un'autenticità all'interno delle sue istanze, l'uomo Gaber "somatizza" le idee e allontana le ideologie, tendendo ad una visione filosofica "antropocentrica" e anche provocatoriamente umanistica del mondo.
"Un'idiozia conquistata a fatica", lo spettacolo ripreso in questi anni in diverse stagioni teatrali, ha un riferimento preciso e molti legami con "Libertà obbligatoria". Con esso non condivide solo certi temi (come ad esempio la "teoria del mercato" di Pasolini) ma sembra portare a termine il percorso iniziato nel 1976. Se "Libertà obbligatoria" era una risposta amara alle domande del 'signor G', "Un'idiozia conquistata a fatica" porta alle estreme conseguenze il discorso iniziato più di vent'anni prima.

– Mi chiedevi a che punto siamo arrivati: io non so cosa succederà nel futuro, ma sembra che nella nostra produzione teatrale ci siano stati due momenti di grossi interrogativi. Dopo essere partiti dal signor G siamo arrivati ad uno spettacolo che si chiamava Libertà obbligatoria, nel 1976; con quello spettacolo arrivavamo a delle conclusioni non dico definitive, ma abbastanza comprensive del tutto. E così siamo ripartiti. Mi sembra che questo spettacolo (Un'idiozia conquistata a fatica – stagione 1998-'99), che tu giustamente collochi in un senso più collettivo che personale e sentimentale, ancora una volta arriva, per la seconda volta nell'arco di questi trent'anni di lavoro, ad un altro momento di conclusione di un percorso. Uno spettacolo più "teorico", non perché i sentimenti non ci interessano, direi anzi che sono quelli che ci fanno vivere e morire. (A. Priolo, "Il luogo del pensiero. Qui e ora", Re Nudo n.18 - 1/3/1998)

- È un momento in cui ognuno si fa assolutamente i fatti propri, senza interesse per gli altri, in cui sembra proprio che percepire l'esistenza reale di un'altra persona sia impossibile, che non esista appartenenza a nulla. Ricordo anni in cui il senso collettivo era presente come istinto nelle persone, poi via via è venuto a mancare. (L. Putti, "Giorgio Gaber: questa povera Italia in mano agli egoisti", La Repubblica 8/11/1994)

– Credo che alla base del lavoro di Luporini e mio (...) ci sia un grande desiderio ci smascheramento. Del resto, da sempre, la nostra ricerca consiste nella smontare innanzitutto le nostre false convinzioni che riguardano sia la sfera personale che quella sociale con lo scopo di diffidare di alcuni finti comportamenti. Anche nella critica che noi da sempre abbiamo rivolto alla sinistra c'è il desiderio di essere contro slogan di tipo propagandistico, a favore della chiarezza di una ricerca autentica. Abbiamo sempre avuto fiducia che se cambia la testa delle persone possono cambiare anche le cose. (M. G. Gregori, "Storie del signor G", L'Unità - Cabaret n.4 1996)

- Cerco delle persone che abbiano una "semplice" consapevolezza e non una complicata consapevolezza di se stessi, dei propri limiti e delle proprie possibilità. La coscienza di questi limiti credo che sia veramente la cultura. Quando io parlo di "uomini al minimo storico di coscienza" è proprio questo che voglio dire: la coscienza non è data da una quantità di conoscenze in senso orizzontale, ma dalla ricerca nel sapere, che non può che essere limitato, della profondità. La ricerca del senso della vita. La tecnologia che conosciamo allarga molto la conoscenza ma sempre in senso orizzontale; non c'è nulla nelle nuove invenzioni che ci aiuta ad andare dentro nelle cose. Può aprirci il panorama ma non vuol dire che ci dia più consapevolezza. Era più consapevole e cosciente un contadino di cent'anni fa, che sapeva sette cose ma le sapeva veramente. Noi in realtà sappiamo tutto e non sappiamo nulla. (...) Ho avuto, purtroppo come tanti, anche delusioni dalla piazza. Il fenomeno di massa è un fenomeno che non amo, e che non ho amato neanche nei momenti in cui si partecipava al movimento, che era una bella parola. Sento molto importante l'esistenza di una quantità di individui che rappresentano ognuno un desiderio, mentre la massa significa spesso l'annullamento del pensiero da parte del gruppo. La massificazione, sia essa di destra o di sinistra, è sempre negativa. Ognuno di noi ha ogni giorno molto spazio nei rapporti quotidiani per mettersi alla prova e per trovare il "qui e ora", ci sono tantissime occasioni per essere persone piuttosto che maschere. E lo smascheramento di quello che siamo mi sembra una cosa realizzabile minuto per minuto nella nostra vita. (A. Priolo, "Il luogo del pensiero. Qui e ora", Re Nudo n.18 - 1/3/1998)

- Nel Duemila avrò 61 anni e se proprio devo fare un piccolo bilancio di questa mia esistenza mi sento in debito con il destino per tutto ciò che ho avuto la possibilità di fare e di ottenere con il mio lavoro. Certo sento gli anni che passano. E non vorrei essere come quegli artisti che vengono giudicati bravi perché identici a quando erano giovani: siamo pieni di giovani attori vecchi! Al contrario vorrei affrontare questo tempo che mi rimane con l'esatta percezione degli anni che ho, in un rapporto autentico con quello che sono. Anche se avrò 61 anni vivo il Duemila come un nuovo millennio, dunque come un inizio. (M. G. Gregori, "Storie del signor G", L'Unità - Cabaret n.4 1996)

"La mia generazione ha perso", nel 2001 segna l'eccezionale ritorno al disco di un artista che negli ultimi trent'anni si è dedicato esclusivamente all'attività teatrale (disco che arriva in testa alle classifiche discografiche) e, come un richiamo alle origini, la partecipazione allo show televisivo di Adriano Celentano (insieme a Dario Fo, Enzo Jannacci e Antonio Albanese) che rimane l'ultima apparizione di Giorgio Gaber sul piccolo schermo. Gaber si produce, nel frattempo, in una anomala tournée (per quanto non priva di precedenti): tiene conferenze nelle università e nei teatri: canta e parla del suo nuovo lavoro e, retrospettivamente, del suo percorso artistico. "La razza in estinzione" – canzone contenuta nel nuovo album "è, certamente, anche l'appassionato epitaffio di una generazione, quella sessantottina, della quale Gaber è stato lungamente compagno di strada. Tra i primi a dirne i vizi e le magagne modaiole, oggi Gaber è orgogliosamente in anticipo anche nel rivalutare il coraggio di quegli anni, e nel rivendicare quanto meno il valore della scommessa perduta (...)", come sottolinea Michele Serra in una recensione al disco.

- Io non sono distruttivo, sono stato frainteso molte volte. Penso sia meglio affrontare la realtà, se no non se ne esce più. La mia generazione ha perso. I nostri slanci, i nostri ideali e le passioni, non sono riusciti a cambiare il mondo. Diciamolo. Riconoscerlo vuol dire che non è finito tutto. (F. Poletti, "Giorgio Gaber: i miei cattivi pensieri", Specchio 21/4/2001)

- Mi sembra che (il mondo) abbia preso la strada all'inverso. La mia speranza è che qualcuno riesca a convincere gli altri che basta, bisognerà cambiare cammino. Che la testa della gente possa cambiare. Ogni volta che vado in scena mi carico per avere fiducia nello spettatore, proprio con la speranza che la testa della gente possa cambiare (...). (L. Arruga, "Gaber: le meraviglie di un sognatore", Il Giorno 21/10/1999)

Nel 2002 esce il volume "La libertà non è star sopra un albero" insieme a una video cassetta antologica, per l'editrice Einaudi. Il libro è insieme canzoniere e scelta ragionata dei monologhi teatrali, testi selezionati da parte dello stesso Gaber nel suo vastissimo repertorio artistico di oltre 40 anni.

- Forse per questioni anagrafiche, mi trovo in un momento di riflessione, direi quasi di bilancio. Non a caso il mio ultimo album si intitola La mia generazione ha perso. Direi che oggi prevale un senso di amarezza per le sconfitte della mia generazione. Del resto con Luporini abbiamo sempre cercato di parlare e di riflettere attorno ai nostri slanci e alle nostre utopie ma anche intorno a ciò che ci faceva male, che creava disagio a noi e forse, anzi sicuramente, non soltanto a noi. Cercando di interpretarlo e di capirlo, quel male. Oggi più che a una evoluzione positiva dell'individuo, mi sembra di aver assistito a un suo mutamento direi quasi antropologico. E vedo un uomo sempre più sopraffatto e totalmente in balia della violenza del mercato. E mi chiedo a cosa siano serviti i nostri slanci, le nostre utopie, i nostri ideali, le nostre ribellioni, le nostre trasgressioni. Purtroppo devo rispondere constatando che non siamo stati migliori dei nostri padri e non credo possiamo costituire un esempio attendibile e autorevole per i nostri figli. Siamo scesi in piazza per contestare, anche con violenza, le dittature politiche del mondo, ma abbiamo perso di fronte all'unica dittatura che ha realmente trionfato: quella del mercato. Almeno i nostri padri la Resistenza l'avevano fatta davvero. Noi non siamo stati capaci di resistere alla finta seduzione del consumo, anzi, ne siamo stati complici per quanto inconsapevoli. Credo sia importante riconoscere i propri errori e le proprie sconfitte, perché comunque la consapevolezza e l'onestà intellettuale rimangono valori fondamentali. E in ogni caso ammettere la propria sconfitta è indispensabile per poter ripartire con maggior chiarezza e con nuovi slanci vitali. Sandro e io abbiamo una fiducia illimitata nelle potenziali risorse dell'individuo e questa potrebbe essere la nostra fede. Laica, naturalmente. Milano, marzo 2002 (a cura di V. Pattavina, "Giorgio Gaber - La libertà non è star sopra un albero", Einaudi, Torino 2002)

1° gennaio 2003: "ultima ricorrenza"... 'il signor G' muore, nella sua casa di Montemagno, in Versilia. Gaber non stava bene da tempo: la stagione teatrale 1999-2000 era stata sospesa più volte; ultima replica dello spettacolo il 15 febbraio a San Marino.
Giorgio Gaber se ne va, lasciando, ben oltre l'immediato shock emotivo dei tanti estimatori, un enorme senso di vuoto. Resta la sua avventura esemplare, unica nel genere, di uomo 'tutto intero' nel mondo della cultura, del teatro e dello spettacolo.

- Ci sono argomenti tabù che si cerca di rimuovere. Penso che se le strade si riempissero di gente malata, forse cambieremmo la nostra testa. Invece nella nostra società, per la vergogna della malattia, vediamo solo gente sana, e questo cerco di dirlo anche nello spettacolo: quando incontriamo qualcuno che sta male abbiamo un turbamento fuori misura, come se non sapessimo che quello è il nostro specchio. Mi sembra che il tabù della nostra epoca sia la mancanza di consapevolezza delle cose importanti e tragiche, essenziali della vita. La spinta dovrebbe essere a parlare di queste cose non in modo macabro o funebre ma come un fatto vitale, perché morte significa vita. (A. Priolo, "Il luogo del pensiero. Qui e ora", Re Nudo n.18 - 1/3/1998)

24 giorni dopo... il 24 gennaio esce l'ultimo lavoro: un album dal titolo "Io non mi sento italiano", per il quale Gaber si era impiegato con grande determinazione nella seconda parte dell'anno precedente.

"(...) Questo Gaber (e questo Luporini, coautore di sempre) è quello più devastante e più autenticamente 'politico', perché sposta il ragionamento e la polemica dalla scivolosa dialettica destra/sinistra alla questione davvero essenziale del nostro vivere sociale. Gaber aveva (anche nella vita) una visione quasi agonistica del conflitto tra individuo e massificazione. Il suo silenzio con i giornalisti, la sua vita privata orgogliosa e appartata, la sua stessa scelta artistica di fuggire dalla televisione e apparire in teatro nella più ostinata solitudine scenica, furono le forme ben visibili della sua estrema coerenza umana e professionale. L'io, il corpo solo, l'occhio di bue puntato sul viso, erano al tempo stesso strumento polemico e via di salvezza, indicazione di un solipsismo eroico ma mai narciso: abbiate pazienza, ma o le cose suonano e cantano in me, oppure non cantano e non suonano. È falso tutto ciò che passa intorno, che tange e che sfiora, ma senza penetrare la persona, senza animarla e turbarla: dunque falsa, nei suoi presupposti, è la società di massa, false la dittatura della folla e del mercato, false le parole che non escono direttamente dall'esperienza individuale. A questa ribellione Gaber ha dedicato gran parte dei suoi spettacoli". (M. Serra, "L'ultima sfida di un uomo libero", Il Venerdì di Repubblica 24/1/2003)
Fonte: giorgiogaber.org