Biografia Neil Young
Fin qui, si direbbe, il ritratto di una delle gloriose cariatidi che continuano ad affollare l'arena del rock. Ma non è così. Young, infatti, ha da sempre in sé il germe della modernità. Non esiste altro musicista che sia riuscito ad attraversare quattro decenni di rock restando sempre un faro per i contemporanei. Uno dei suoi capolavori, Tonight's The Night (1975), è stato giudicato un album punk ante-litteram; "Out of the blue/ Into the black" (1979) era dedicata a Johnny Rotten dei Sex Pistols; e "Sleep With Angels" (1994) era un omaggio a Kurt Cobain, mito bruciato del grunge, nonché suo massimo discepolo. Nel suo messaggio di addio, Cobain scrisse proprio la frase di una canzone di Young ("My My, Hey Hey"): "Meglio bruciarsi che svanire". Un anno dopo la morte del leader dei Nirvana, il maestro canadese ricambiò commosso sul palco del "Rock'n'roll Hall of Fame":"Voglio ringraziare Cobainper aver rinnovato la mia ispirazione". Ma la febbre younghiana ha contagiato anche altri numi del rock degli anni 90, dai Sonic Youth a Nick Cave, dai Dinosaur Jr. ai Pearl Jam, alcuni dei quali hanno partecipato a "The Bridge", il disco-tributo in suo onore.
Forse, la grandezza di Young sta nella sua schizofrenia, il quel suo costante dibattersi tra smania di rinnovamento e nostalgia del passato, tra esplosioni di rabbia e pause di purificazione. Dal country degli esordi al garage-punk di Rust Never Sleeps, dal rock'n'roll al synth-pop, dal soul al blues, dall'hard-rock al metallo pesante di Re.ac.tor, non c'è genere musicale che questo atipico rocker non abbia esplorato.Ma forse la sua grandezza sta anche nell'aver saputo rappresentare le nevrosi e le contraddizioni di un'epoca intera, sospesa tra l'utopia hippie e la restaurazione post-'68. Profeta del sogno di "cambiare il mondo", ma anche cantore degli abissi della disperazione individuale, Young ha costruito un canzoniere universale, che unisce al fervore allucinato dei rocker il messaggio "morale" dei folksinger più nobili, da Woody Guthrie a Bob Dylan.
I Buffalo Springfield, prima ancora gli Squires, poi i ripetuti approdi nel "porto sicuro", come lui stesso definisce la pluripremiata ditta Crosby, Stills, Nash & Young: il cantautore canadese ha messo la sua energia al servizio di gruppi importanti. E ha voluto accanto a sé per trent'anni la sua band, i Crazy Horse. Ma, in fondo, è sempre stato "The Loner", il solitario, come si autodefiniva in una delle sue prime canzoni. Ogni sua relazione è sempre destinata a una brusca fine, a causa del suo destino errante che gli impedisce di inserirsi appieno in qualsiasi contesto. Sarà questo il trait d'union di tutte le sue vicende, musicali e non.
Neil Young nasce a Toronto, in Canada, il 12 novembre 1945; il padre Scott è un giornalista sportivo, la madre Edna una casalinga. A quattro anni, si trasferisce con la famiglia a Omemee, villaggio dell'Ontario dove due anni più tardi viene colpito dall'epidemia di poliomelite che contagia migliaia di bambini canadesi, tra i quali anche Joni Mitchell. La musica è fin dall'infanzia la sua passione: "Il mio primo strumento fu un ukulele, poi ebbi un banjo, quindi, a 15 anni, la mia prima chitarra elettrica", ha raccontato. Neil il giovane patisce presto il primo trauma, la separazione dei genitori, diventando un adolescente timido e insicuro che cerca nella musica il rifugio alle sue inquietudini. Trasferitosi con la madre a Winnipeg, partecipa, in veste di cantante e chitarrista, a una serie infinita di hi-school band. Dopo le superiori, approda negli Squires, una formazione beat influenzata dai suoni della "British Invasion". Quindi, comincia a frequentare il circuito folk canadese e conosce Rick James oltre alla stessa Mitchell.
Ma la terra promessa per ogni musicista dell'epoca è la California. Così Young abbandona le montagne del Canada per cercare fortuna nella West Coast. Nel 1966, con Steven Stills e Richie Furay, fonda i Buffalo Springfield, che diverranno uno dei gruppi di riferimento del country-rock in voga nel periodo. Pur donando alla band le sue prime ballate ("Broken Arrow", "I Am A Child", "Mr. Soul", "Nowadays Clancy Can't Even Sing"), Young resta sempre in posizione defilata (sarà lui stesso a definire il suo ruolo come quello di "indiano" della compagnia) e, dopo due anni e tre dischi, abbandona il progetto.
I tempi sono maturi per l'esordio solista, che avviene nel 1968 con l'omonimo album Neil Young, pubblicato dalla Reprise, l'etichetta che gli resterà fedele per tutta la sua lunga carriera. Pur acerbo e discontinuo, il disco mette già in luce molti degli ingredienti dell'arte younghiana: melanconiche ballate country, inquieti bozzetti folk e un chitarrismo bruciante. Svettano la lunga allucinazione di "Last Trip To Tulsa", dolente blues per voce e chitarra acustica con un testo-fiume alla Dylan, e il ruvido autoritratto di "The Loner" ("He's a perfect stranger/ like a cross of himself and a fox/ He's a feeling arranger/ and a changer of the ways he talks"). Il retaggio folk riaffiora invece nella tenera "Sugar Mountain", che però resterà solo su 45 giri.
Prima di partire per una lunga tournée che lo vedrà esibirsi anche al fianco di Joni Mitchell, Young sposa Susan Acevedo (1° dicembre 1968) e si stabilisce con lei nella casa di Topanga Canyon.
All'inizio del 1969 esce Everybody Knows This Is Nowhere, primo album prodotto da David Briggs e primo frutto della collaborazione di Young con i Crazy Horse: Danny Whitten (chitarra), Billy Talbot (basso) e Ralph Molina (batteria). Ne scaturisce un pugno di ballate marchiate a fuoco, che uniscono alla sensibilità folk di Young un approccio più marcatamente rock. La nevrotica "Cinnamon Girl", la sfibrante jam di "Cowgirl In The Sand" (dieci minuti) e l'elettrofolk onirico di "Down By The River" sono i tre nuovi capolavori.
Il 1970 è un anno cruciale per Neil Young: escono infatti due kolossal come Deja Vu, primo capitolo della sua collaborazione con David Crosby, Stephen Stills e Graham Nash nei CSN&Y, e il suo terzo album solista, After The Gold Rush, che annovera la presenza di un diciassettenne Nils Lofgren alla chitarra e segna il ritorno alle radici folk. "Only Love Can Break Your Heart" è un valzer sghembo, apparentemente sereno, ma venato da una profonda amarezza. La title track è un altro doloroso affondo, con la voce ferita di Young che cerca requie in un'atmosfera onirica (il piano, i corni). "Birds" è un'altra melodia toccante, che fa da cornice a una storia sospesa tra il "tomorrow" e il "today". L'anima rock dei Crazy Horse riaffiora in "When You Dance You Can Really Love", tra chitarre abrasive e un'impetuosa sezione ritmica. Ma la vera pepita della "Corsa all'oro" è l'inno anti-razzista di "Southern Man": una cavalcata elettrica folgorante, in cui l'invettiva di Young, sorretta da un coro, è accompagnata da una chitarra acida e da cupi rintocchi di piano. Un brano leggendario, destinato a infiniti trionfi nelle esibizioni dal vivo.
Comincia a emergere anche il volto politico del cantautore canadese. Nella primavera del '70, l'America protesta contro Nixon e la guerra in Vietnam. All'Università di Kent, Ohio, la polizia spara su una folla di manifestanti e uccide quattro studenti. Sull'onda emotiva, Young compone "Ohio" ("Quattro morti in Ohio/ quanti ancora?").La casa discografica ne fa un instant record, riuscendo a pubblicarlo in una sola settimana!
E' il preludio al grande successo mondiale, che arriva nel 1972 con Harvest . Registrato a Nashville nel 1971 con gli Stray Gators (Ben Keith, Tim Drummond, Kenny Buttrey, Linda Ronstadt e James Taylor), l'album viene pubblicato un anno dopo per consentire a Young, che nel frattempo si è separato dalla moglie, di sottoporsi a un intervento chirurgico alla schiena.
Canzoniere bucolico di grande fascino lirico, Harvest segna un ritorno alle origini country di Young e ne esalta i risvolti più teneri e umani. "Canto questa canzone perché amo l'uomo/ So che qualcuno di voi non lo capisce.../ Ho visto l'ago e il danno compiuto/ Un po' di questo è in ognuno/ Ma ogni drogato è come un sole che tramonta", canta in "The Needle And The Damage Done", tentando di salvare l'amico Danny Whitten, leader dei Crazy Horse.Ma Whitten morirà per overdose di eroina pochi mesi dopo. Harvest è uno psicoviaggio nell'era hippie, una successione di aperture radiose e ripiegamenti nell'ombra.
Le scene rurali, le ambientazioni di una provincia americana quasi cinematografica, nascondono sempre una grande tensione emotiva. L'iniziale "Out On The Weekend" scandaglia gli abissi della solitudine ("See the lonely boy out on the weekend") e della malinconia. La tristezza si attenua per un istante tra i suoni più morbidamente country della title track , ma il pathos si fa nuovamente impetuoso sulle note di "A Man Needs A Maid", ispirato da Carrie Snodgrass, l'attrice di "Diario di una casalinga inquieta", dalla quale Young ha avuto il figlio Zeke: l'orchestrazione aggiunge ulteriore enfasi, ma è il falsetto tremulo del canadese, sospeso sul filo dell'emozione, a sciogliere il cuore. Seppelliti timpani, arpe e violoncelli, Young veste poi i panni del country-singer romantico per la ballata di "Heart Of Gold", una melodia perfetta accompagnata dalla pedal steel di Ben Keith, dall'armonica e dalla chitarra acustica. Chiusa la prima facciata con il divertissement di "Are You Ready For The Country?", tocca a "Old Man" riprendere le fila del discorso, con un banjo, strumento principe del country, a dettar legge. E se gli arrangiamenti per orchestra di Jack Nietzsche appesantiscono "There's A World", "Alabama" mette a nudo il cuore sanguinante del disco: un'altra invettiva antirazzista che, dopo "Southern Man", torna ad accusare i "sudisti": "Alabama, you've got a weight on the shoulder that's breaking your back/ your cadillac has got a wheel in the ditch and a wheel on the track". I Lynyrd Skynyrd controbatteranno con ardore patriottardo nell'altrettanto celebre "Sweet Home Alabama". Chiude il disco un'altra folgorazione elettrica: "Words (beetween the lines of age)", con sventagliate di chitarre, trascinanti cambi di tempo e il falsetto vibrante di Young in primo piano.
Raggiunto l'apice del successo (Harvest conquisterà il n.1 sia negli Usa sia in Gran Bretagna), il cantautore di Toronto entra in una fase oscura, in cui la sua alienazione e il suo "mal di vivere" si acuiscono pesantemente, anche a causa delle morti per overdose di Whitten e dell'amicoroadie Bruce Berry.Journey Through The Past (1972) e Time Fades Away (1973) riflettono inevitabilmente questa crisi, tra storie di droga e fantasmi di persone scomparse. Quest'ultimo album, registrato dal vivo con contributi dei soliti Nitzche, Crosby e Nash, riflette nelle sue nove composizioni inedite il crescente malessere del canadese, che qui comincia quel processo di "messa a nudo" della propria anima che troverà ampia realizzazione nei lavori successivi fino a Zuma. Disco ingiustamente trascurato (a causa probabilmente della sua difficile reperibilità), Time Fades Away offre momenti notevoli come l'autobiografica "Don't Be Denied" e la classica conclusiva cavalcata alla Young "Last Dance", passando per brevi episodi di forte introspezione come "The Bridge" e "Love In Mind" che riportano alla gloriosa produzione immediatamente precedente.
Il viaggio nell'oscurità prosegue con On The Beach (1974), disco che sarà rimasterizzato in cd solo trent'anni dopo, ulteriore testimonianza di come il dolore riesca a fornire a Young una livida vena creativa. Tutto è desolato, a cominciare dalla copertina, con un mare opaco, un ombrellone deserto, una Cadillac affondata nella sabbia e un Neil Young di spalle, quasi a impersonificare la solitudine. Gli iniziali bagliori rock di "Walk On", con i guizzi di Ben Keith alla slide guitar, si offuscano presto nel brusio di "See The Sky About To Rain", una ballata commovente, solcata dal piano Wurlitzer e dagli arpeggi malinconici della steel guitar, e con il mesto drumming di Levon Helm ad assecondare il bisbiglio di Young. Più movimentata "Revolution Blues", che vibra della chitarra dell'ospite David Crosby e del basso funky di Rick Danko, prima che Young prenda l'iniziativa con un assolo allucinato e con un lamento sorretto solo dalla forza dei nervi, preludio al caos finale. Seguono due blues: "For The Turnstiles", cartolina da un'America rurale anni 30 con Ben Keith al dobro e Young al banjo, e la struggente "Vampire Blues", con il canto rasposo di Young, i palpiti agonizzanti del basso di Tim Drummond e un organo "mistico" che scioglie per un attimo la tensione. Dopo il requiem psichedelico della title track (con Graham Nash al Wurlitzer) e la ballata notturna di "Motion Pictures (For Carrie)", ecco gli otto minuti di "Ambulance Blues" a riassumere i contenuti dell'intera opera: un atto d'accusa contro il disfacimento morale americano, scandito dal battito a mani nude di Molina, e cullato tra i sospiri del violino di Rusty Kershaw e i sibili dell'armonica di Young.
Nel frattempo, è già pronto il materiale del successivo Tonight's The Night , che il "Cavallo Pazzo" canadese propone in agonizzanti esecuzioni dal vivo, al limite del collasso nervoso. Durante uno di questi concerti, offre da bere a 8.000 persone. Alla fine del tour, sono in molti a darlo per spacciato, compresa la stessa Reprise, che aspetta due anni prima di far uscire il disco.Se On The Beach era un saggio sul dolore individuale, Tonight's The Night (1975) è il lamento funebre di un'intera generazione: l'epitaffio dell'evo hippie, con i suoi sogni sprofondati negli abissi della droga e della violenza. Una "lunga notte dell'anima" resa anche graficamente dalla copertina, nera come la pece. Una meditazione su rock'n'roll, droga e morte, sintesi del punto di non ritorno della follia autodistruttiva in musica.Tutto questo è Tonight's The Night.Ed ecco, allora, il lamento ebbro della title track aprire il funerale, con i versi "Bruce Barry was a working man/ he used to load that Encoline van", dedicati all'amico morto per overdose di eroina. Si racconta che il canadese costringesse i musicisti a suonare di notte, con poche ore di sonno all'attivo, e il blues dolente di "Speakin'Out" lascia trasparire quel senso di stanchezza e nervosismo. Nella struggente "Mellow My Mind", invece, il canadese, accompagnato dall'armonica, sembra versare lacrime più che cantare. Anche i rock'n'roll più trascinanti sono venati di dolore, come il boogie allucinato di "World On A String", dove Young fa sfoggio del suo chitarrismo nervoso, accompagnato da una batteria dal pestare metronomico. Ma il funerale vero e proprio riprende con "Borrowed Tune", piano, armonica e voce sottile ancora soffrente e nostalgica. La chitarra elettrica torna a sferragliare nel blues di "Come On Baby Let's Go Downtown", registrato dal vivo durante un concerto a Fillmore East con ancora Whitten al canto.Il country di "Roll Another Number" si riallaccia invece alle ballate rurali di "Harvest", grazie alla steel-guitar di Ben Keith e ai background vocals di Molina e Whitten. "Albuquerque" è uno slo-core ante-litteram dall'incedere marziale, con le chitarre dialoganti (acida quella di Young, desertica quella di Keith), che trasudano psichedelia. Chiude l'opera lo strascinato "talking blues" funereo di "Tired Eyes", in cui Young cerca di dar pace a quegli occhi stanchi che hanno visto il rock devastare le vite di persone care; piano e chitarra fungono da accompagnamento al canto, visceralmente doloroso, di Young, mentre l'armonica dipinge una melodia tristissima. Tonight's The Night è forse il primo concept-album sul dolore della storia del rock. Young riesce a cogliere gli eccessi di un'idealità, spostando il tutto nel contesto del suo vissuto personale ed entrando in dissonanza cognitiva con ciò in cui aveva creduto (operazione analoga fu compiuta dal David Crosby di "If I Could Only Remember My Name").
Dopo aver subito un'operazione alla gola, Young cambia rotta con Zuma (1975). Interamente dedicato alle culture indigene americane, l'album è più "solare" e sfodera un'altra invettiva politica: la leggendaria "Cortez The Killer" che denuncia le violenze dei conquistadores spagnoli in uno sfibrante tour de force di chitarre. "Looking For A Heart", "Danger Bird", "Pardon My Heart" segnano il ritorno alle ballate elettriche degli esordi, mentre "Through My Sails" documenta una fugace riapparizione del quartetto CSNY.
Nel 1977 Young, su consiglio dell'amica Linda Ronstadt, ingaggia nel suo entourage la giovane cantante Nicolette Larson, con la quale ha anche una fugace relazione. Sono mesi turbolenti, a cause delle troppe sbornie. American Stars'n'Bars propone una facciata da saloon country, con testi banali e ubriachi, e un emozionante lato B, con brani come "Star Of Bethlehem", "Homegrown", "Will To Love" e, soprattutto "Like A Hurricane": uno dei più magici e trascinanti inni younghiani, con il suo testo immediato e commovente ("I am just a dreamer, but you are just a dream.../ You are like a hurricane/ There's calm in your eye/ And I'm gettin' blown away/ To somewhere safer where the feeling stays/ I want to love you but I'm getting blown away").
In autunno, Young suona dal vivo una toccante "Alabama", che si fonde con "Sweet Home Alabama", in memoria della tragedia che pochi mesi prima ha colpito i Lynyrd Skynyrd (tre membri della band sono morti in un incidente aereo).
Il 1978 regala un nuovo album, Comes A Time (titolo scelto in extremis al posto di "Gone With The Wind").Il disco ritrova la dimensione acustica di Harvest con un pugno di country/mid tempo song, come "Four Strong Winds" e "Already One", e con una dolce ballata come "Lotta Love".
Terminata la relazione con la Larson, Young sposa la sua vecchia amica e vicina di ranch Pegi (2 agosto 1978). Poco dopo, parte con il "Rust Never Sleeps Tour" che segnerà la sua grande resurrezione sulla scena mondiale. Dalla tournée nascerà un memorabile live come Rust Never Sleeps: la "ruggine che non dorme mai" è l'energia di Neil Young, curvo sulla sua chitarra, a gridare al mondo la sua rabbia e la sua solitudine. Suddiviso come ogni suo live in parte acustica solitaria e cavalcata elettrica con i Crazy Horse, il disco si apre con la struggente sfida al tempo di "My my hey hey (out of the blue)": "Rock and roll can never die", canta la sua vocina che quasi si spezza; "the King is gone but is not forgotten.", ovvero Elvis Presley, simbolo del rock and roll. Young è consapevole della fine di un'epoca, come canta in "The Thrasher", ma altrettanto sicuro di difendere il vecchio rock and roll, "like dinosaurs in the shrine".
Young è un dinosauro del rock, ma lo sguardo verso il nuovo è palese, nell'inneggiare a Johnny Rotten (Sex Pistols) nella stessa "My My Hey Hey". Il canadese si tuffa nel passato con i classici pezzi pro-indiani d'America, come "Ride My Llama" e "Pocahontas", senza dimenticare la dolce "Sail Away", con Nicolette Larson alla seconda voce. La rabbia per i teepee bruciati e per la morte di tante pocahontas deflagra nel capolavoro dell'album, "Powderfinger". E' la storia di un'invasione e di un ragazzo che chiede invano aiuto ("shelter me from the powder and the finger"). I Crazy Horse scatenati accompagnano la ruggente chitarra di Young in un'apoteosi elettrica. "Welfare Mothers" e "Sedan Delivery" denunciano lati oscuri della società (la prima inneggia al divorzio, la seconda racconta il degrado metropolitano), mentre la conclusione è affidata alla versione elettrica di "Hey Hey My My (into the black)", con gli amplificatori Fender ormai esausti e con Young che picchia sulla chitarra incitando a vivere al massimo, "cause rust never sleeps". Ma proprio quando ricomincia a respirare, Young viene colpito al cuore da una nuova tragedia. Al suo secondo figlio Ben (il primo avuto da Pegi) viene diagnosticata una grave forma di paralisi cerebrale, e solo in quel momento Young scopre che anche il primogenito Zeke soffre di una lieve forma della stessa malattia. Ben viene sottoposto negli anni a moderne terapie di riabilitazione. Tecniche che influenzeranno anche la carriera artistica di Young, tanto da indurlo a sperimentare per un certo tempo il vocoder, lo strumento che permette di trasformare la voce in un suono computerizzato. "Ben è il mio assistente, il mio collaudatore", dirà affettuosamente in un'intervista a "Mojo". E lo stesso Young, insieme alla moglie Pegi, costituirà nel 1986 la Bridge School, una scuola speciale per bambini cerebrolesi.
Nel frattempo, escono due dischi fondamentali per chi desidera avere un approccio sintetico alla sua opera: la tripla antologia Decade (1977) e l'album Live Rust (1979), compendio ideale delle sue incendiarie esibizioni dal vivo.
Ma lo Young che si affaccia sulla nuova decade ha perso gran parte delle idee e del nerbo che lo avevano guidato nei suoi memorabili 70.
L'opaco Hawks And Doves (1980) non lascia il segno. E non bastano il fervore heavy-metal di Re-ac-tor (1981) e la folgorazione tecnologica di Trans (1982) a invertire la rotta. Privo delle certezze del passato e insicuro sull'evoluzione futura del suo suono, Young sembra precipitato in un vicolo cieco. Landing On Water (1986) segna un'ulteriore tappa nel suo avvicinamento a sintetizzatori e drum machine.
Anche questo improbabile cowboy robotico soffre della nostalgia per un passato ormai svanito. Ma i revival di Everybody's Rockin' (1983), Old Ways (1985), This Note's For You (1988) e Life (1987), sospesi tra rock'n'roll, country e blues, sono solo la nemesi di un musicista in crisi. In una intervista del 1992 al New York Times, Young racconterà che la sua musica "ermetica" degli 80 aveva rappresentato la sua frustrazione per non poter comunicare con il figlio Ben.
Quando sembra ormai spacciato, Young ritrova smalto ed energia con Freedom (1989), il primo disco dopo anni a sfoggiare un pezzo degno del repertorio dei 70: la devastante progressione di "Rockin' In The Free World" (in versione acustica e dal vivo), in cui torna l'orgoglio del rocker che rivendica il suo spirito libero e solitario. La sorniona "Crime In The City" è invece il nuovo apologo sulla desolazione metropolitana.
Una conferma dei segnali di ripresa viene da Ragged Glory (1990), che lo fa conoscere anche alla generazione grunge, che identifica in lui il padrino del Seattle-sound. In oltre un'ora di musica, Young sforna una decina di pezzi al rumor bianco, densi di distorsioni e di feedback. "Love to Burn" e "Over and Over", in paerticolare, resuscitano le emozioni degli anni ruggenti.
A testimonianza del nuovo feeling con l'alternative rock contemporaneo, Young invita i Sonic Youth,luminari del noise-rock, ad aprire i concerti dello "Spook The Horse Tour". Anche da quelle esibizioni scaturiranno i fragorosi live Weld e Arc (1991).
Ma Young ama spiazzare sempre tutti. E così l'anno dopo volta pagina, e ripiomba nel passato con il sequel "notturno" di Harvest, Harvest Moon (1992), una raccolta di tenere ballate acustiche che però, salvo qualche rara eccezione ("Harvest Moon", "Such A Woman"), fanno rimpiangere quelle di vent'anni prima.
Sleeps With Angels (1994), con un commovente ricordo di Kurt Cobain, e Mirror Ball (1995), in compagnia dei Pearl Jam, servono essenzialmente a celebrare il primato "morale" di Young sulle generazioni successive. "Sono sempre rimasto aperto agli stimoli esterni e pronto a scriverci sopra una canzone - spiega Young -. Non sono uno che rimanda, che se ha un brano in mente va al cinema o altrove. Il rispetto del processo creativo, dell'ispirazione, il coinvolgimento: sono questi i miei segreti". Un istintivo, dunque. Che segue la propria immaginazione. Come nel 1995, quando imbraccia la chitarra e compone in presa diretta, davanti ai fotogrammi della pellicola, la colonna sonora per il western metafisico di Jim Jarmush Dead Man. Passata quasi inosservata, è una delle sue prove migliori del decennio, nel segno di una psichedelia ambientale e visionaria.
La nostalgia canaglia, però, torna a prendergli la mano in Silver & Gold (2000), che raccoglie dieci ballate soul-country-rock, prevalentemente acustiche, costruite attorno a pochi e semplici accordi. Qualcuna è inedita, altre erano già pronte. Altre ancora ci dovevano essere e sono invece finite nel disco dell'inaspettata riunione con Crosby, Stills e Nash dell'anno scorso ("Looking forward"). Tutte sono dannatamente muffose e sembrano uscite da una riunione di hippie nostalgici sulla West Coast. "Buffalo Springfield Again" rievoca il gruppo in cui Young iniziò la carriera: "C'era una radiolina sintonizzata su un'emittente country - ha raccontato Young - e ho sentito la voce dello stesso dj che lavorava in quella radio trent'anni fa, quando ero nei Buffalo. Ed era proprio lui. Ho scritto la canzone di getto, ma senza rimpianti: non sono un nostalgico". E chissà se gli sono tornati in mente quei giorni di febbraio del 1966, quel folle inseguimento sulle strade della California a bordo di un carro funebre, alla ricerca di Stephen Stills e Richie Furay, per formare la band.
Nel successivo Are You Passionate? (2002), si celebra invece il mito del soul rock, com'era stato una quindicina d'anni fa con il pur diverso This Note's For You. Un disco morbido, rilassato, con molti brani in falsetto, il puntiglioso accompagnamento di Booker T. Jones alle tastiere, Donald Duck Dunn al basso, Frank Poncho Sampedro alle chitarre e Steve Potts alla batteria. La strascicata "My Disappointment", l'intensa "Two Old Friends" e la toccante "Let's Roll" (brano già proposto in concerto e basato sulla storia vera di Todd Beamer, l'uomo che guidò la rivolta sull'aereo il giorno dell'attentato alle Torri Gemelle) offrono i momenti migliori.
Nel 2003, una nuova avventura con i Crazy Horse nel concept-album Greendale, storia dell'omicidio irrisolto di un poliziotto in un villaggio rurale.I dieci minuti di "Carmichael" mettono a dura prova la pazienza dell'ascoltatore, ma brani come l'iniziale, suadente "Falling From Above" o la ballata ecologista di "Be The Rain" recuperano, a tratti, il piglio dei tempi d'oro. Nel frattempo, Young ha trovato un suo equilibrio: "Vivo nel mio ranch in California e sono un padre di famiglia, ma questo non è un freno alla mia arte. Mia moglie e i miei figli mi incoraggiano ad andare avanti. Sono in controtendenza: oggi i matrimoni si celebrano e si bruciano nel giro di pochi mesi; gli artisti vendono 20 milioni di dischi in un anno e poi scompaiono. Ma sono le cose durature a far girare il mondo...". Personaggio scontroso, laconico - è stato capace di portare a termine interi concerti senza profferire una sola parola - Young non si presta a facili schemi. Dedito a importanti cause sociali (Live Aid, Farm Aid), spiazzò tutti nel 1984 elogiando Ronald Reagan, e, qualche anno dopo, dichiarando che avrebbe votato per il miliardario Ross Perot. Si imbestialì quando Clinton disertò un appuntamento del Farm Aid. Negli ultimi anni, ha abbinato un ritrovato patriottismo al sistematico attacco al potere (Greendale, ad esempio, è ferocemente anti-Bush).
Prairie Wind (2005) si può considerare il completamento della trilogia "acustica", avviata con Harvest e proseguita con Harvest Moon. L'accoppiata di disastri accaduti a Young avrebbe potuto stendere chiunque: in primavera gli viene diagnosticato un aneurisma al cervello che lo costringe a un'operazione d'urgenza; a giugno scompare l'amato padre Scott, gettando ulteriormente Neil in uno stato di prostrazione emotiva. Tutto sembra nero e inutile, senza senso. Poi, come sempre, arriva la Musica e salva la situazione. Neil inizia a comporre, lentamente, prima, durante e dopo il ricovero all'ospedale di New York.
Ne scaturisce un disco che ha bisogno della tranquillità della campagna, la rilassatezza dei cieli delle praterie di Nashville. Si parte in sordina, con il pigro andamento del singolo "The Painter", ricco di armonie vocali, chitarre acustiche e svolazzi di pedal steel. Si sale pian piano, con l'apocalittica "No Wonder" e i cori femminili che si librano verso il cielo con il violino e la chitarra ad attorcigliarsi come serpenti. La tenera, leggerissima "Falling Off The Face Of The Earth" è un ringraziamento ma anche una lettera da condannato a morte, suonata con svagato piglio pop-country. Si prosegue nel viaggio ed ecco i pezzi migliori: "Far From Home", un up-tempo country-rock con sezione fiati. "It's A Dream" è il culmine del pessimismo onirico del disco, un sortilegio fatto di archi, piano, organo e pedal steel. La title track è invece l'altra faccia della medaglia: un numero di infernale western fuorilegge, tutto polvere e fango: sette minuti di ritornelli ripetuti dalle voci femminili, l'armonia e la chitarra acustica decisa e circolare. Le nuvole scompaiono assieme a "Here For You", dolcissima dedica di un padre ai suoi figli, ormai indipendenti e lontani. C'è persino uno spazio per le dediche: "This Old Guitar" è una ode alla vecchia sei corde di Hank Williams, suonata e raccontata da Neil con tutto il doveroso rispetto reverenziale. La voce si arrochisce e si abbassa di tonalità, mentre la chitarra tratteggia mini citazioni dal riff base di "Harvest Moon". Il secondo omaggio, "He Was The King", è ovviamente per Elvis Presley, figura mitologica e metafora di innocenza rock perduta. "When God Made Me" chiude le pagine del disco con un'inaspettata virata verso il soul-gospel.
Living With War (2006), giunge al termine di un'altra tappa del calvario di Young (colpito da un aneurisma cerebrale nel 2005) ed è totalmente proteso verso l’attualità della politica internazionale statunitense, orientata alla tenacia bellicista dell’amministrazione Bush-Rice. Young esclude i Crazy Horse e adotta trombettista, sezione ritmica e addirittura un coro di un centinaio di voci. Dall’attacca deciso di "After The Garden", un riff caldo e sporco, un folk-southern-fuzz che ingloba la batteria in seconda battuta e il refrain del coro trattato con levità alla fine della strofa, al toccante spiritual conclusivo di “America The Beautiful”, ciò che conta è soprattutto una gerarchia strumentale. In primis viene la chitarra di Young, il propulsore energetico di queste personali concertazioni di protesta. E’ questa a scodellare brani come il già citato “After The Garden”, o il dialogo esacerbato tra Young e il coro di “The Restless Consumer”, o “Lookin' For A Leader”, o l’anthem di “Shock And Awe”, il tutto con poche-minime divagazioni, ma anzi limitandosi a fornire un vibrante corredo accordale. Nella quasi dylaniana “Roger And Out”, la stessa chitarra riesce a far placare l’impeto della batteria e a far emergere l’ennesima reincarnazione del folksinger attivista. Il coro, in ogni caso, svolge una parte non secondaria. “America The Beautiful” è il punto di massima inversione gerarchica (tacciono tutti gli altri, Young compreso), in cui i cento cantanti sembrano tratteggiare l’inno nazionale statunitense con afflato pastorale. Prima ancora ci sono “Families”, cavalcata consapevole e sguardo commosso di Young dai risvolti gospel, e “Flags Of Freedom”, sua logica continuazione e ideale cerchio morale di condivisione con le altre due grandi voci americane: Dylan e Springsteen. La tromba di Tommy Bray, oltre a rafforzare questi momenti accorati, emerge anche e soprattutto nei registri eroici da inno civile. E’ il caso di “Shock And Awe” e della canzone più pubblicizzata (ma anche la meno interessante), “Let's Impeach The President”, con unisono tra Young, coro e tromba.
Le critiche sono spesso confuse, ma l’esasperazione e la spontaneità sono fatte salve. Neil Young è vivo e lotta con il suo popolo. A modo suo, come sempre.
A 62 anni, tra le riedizioni di vecchi concerti (“At Fillmore East” con i Crazy Horse e l’immaginifico “Live At Massey Hall, 1971” in solitaria), Young pubblica Chrome Dreams II, figlio nel titolo di quel “Chrome Dreams” che progettò dopo Zuma senza però mai pubblicarlo e le cui canzoni (una tracklist da favola, per inciso..) finirono su album successivi.
I primi tre brani sono cose che i suoi giovani successori pagherebbero per saper scrivere e interpretare.
Prendi “Beautiful Bluebird”, ballata per armonica e lap steel, una di quelle canzoni per cui il sottoscritto baratterebbe buona parte del nuovo revival folk di oggi; dipinto di grano e sole, strade solitarie e ingenui amori. Colonna sonora ideale per il viaggio di Richard Fansworth nel lynchiano “Una storia vera”, orgoglio e pace interiore fatta di cose semplici. Ricordi più recenti (ma non di molto) sollevano la polvere e il banjo di “Boxcar”, ancora America rurale, western di perdenti e lavoratori; “Ordinary People”, allora, l’inaspettata energia di questo vecchio cavallo pazzo che ci regala diciotto minuti di elettricità come quando furoreggiava con i Crazy Horse: stavolta sono i BlueNote a fornire appoggio informale con sax, cornette e fiati vari, ma c'è quella chitarra inconfondibile a ricordarti chi stai ascoltando. Diciotto minuti di svisate e assoli con Neil a cantare come ai vecchi tempi, populista forse, prolisso, magari, ma tant’è.
Poi, purtroppo, l’uomo di Toronto ritorna quello degli ultimi anni e ci rifila “Shining Light” e “The Believer”, due ballate melense incrociate con pop e soul che fanno quasi svanire il fresco ricordo del trittico iniziale.
Non è finita, però, perché il vecchio leone ha ancora qualche ruggito in serbo: si risolleva con “Spirit Road” e “Dirty Old Man”, tutte grinta, poi, tra l’innocuo country di “Even After” e la trascurabile ballata finale per piano e fanciullesco coro “The Way”, si rilancia ancora in un’ultima cavalcata. “No Hidden Path”, gemella di “Ordinary People” ma meno multiforme, è un altro pezzo di quasi quindici minuti in cui la chitarra elettrica si libra in voli d’improvvisazione che ci ricordano un’altra fetta della carriera del loner canadese.
Larvatamente Obama-oriented, Fork In The Road (2009) è dedicato alle problematiche ecologico-ambientali, e alle fonti energetiche alternative. Il punto di vista è quello delle automobili - una delle passioni del loner canadese - e delle “Lincoln” in modo particolare.
A parte lo sciapo rock sudista di “Johnny Magic”, il disco rimpolpa la chitarra del leader - di nuovo privata dei Crazy Horse - di cori hippie in “Just Singing a Song”, di soul motown in “Fuel Line”, del passo quasi west-coast rap in “Cough Up The Bucks”. Young si ritaglia pure uno spazio per un lento con organo gospel (“Hit The Road”) e una ballata folkish vecchio stile, ma riprende toni possenti in “Get Behind The Wheel”, con cui rispolvera persino l’honky-tonk di “Everybody’s Rokin’” (ma stavolta innervandolo del giusto spirito di rocker di razza) e in “Off The Road”, la risposta da macho a “Hit The Road”.
Le dieci tracce hanno un mood sfacciatamente arioso, in linea con il supporto alla conversione da consumo a benzina a consumo elettrico delle “Lincvolt”, brevettate da Jon Goodwin. Nondimeno, hanno assorbito il modus operandi degli ultimi decorsi del vegliardo autore: la scrittura di getto, che evita di guardarsi indietro preferendo puntare all’istintività.
Il disco prelude alla fantomatica pubblicazione del primo volume dei mitici Archives.
Quando, finalmente (Luglio 2009) il primo volume degli Archives vede la luce (Neil Young Archives, Vol. 1: 1963-1972), appare come una delle antologie più biografiche di tutti i tempi, infinitamente più prossima alla moda delle complete edition che alle bootleg series Dylan-iane.
Gli otto Cd, che coprono il periodo che va dalle primissime incisioni con gli Squires, passa per le prime registrazioni acustiche (tra cui un'embrionale versione studio di "Sugar Mountain"), i capolavori di Everybody Knows This Is Nowhere, per finire coi classici country-rock di After The Goldrush e Harvest (con tanto di scarti e inediti del periodo), costituiscono così una prima porzione di catalogo minuto per minuto dell'opus Young-iano.
Completano l'opera le registrazioni live complete (già edite) al Massey Hall e al Fillmore East, e - qualora si optasse per l'edizione in 10 Dvd - un'infinità di chicche filmate, dietro le quinte e spezzoni live d'interesse persino storico.
L'impianto colossale e il prezzo non alla portata di tutti (comprensivo anche di pregiato libro a colori e gadget assortiti) lo tiene distante da chi si accosta per la prima volta al cantautore canadese, e forse anche dai fan incalliti, accostandolo più a cronisti, documentaristi e completisti intransigenti.
Incallito "primitivista", Neil Young è la dimostrazione che la semplicità non è sempre semplice. Ma è soprattutto l'eroe del rock inteso come espressione del dolore, delle paranoie e delle nevrosi dell'individuo. "I need a crowd of people, but I can't face them day today (...)/ I went to the radio interview, but I ended up alone at the microphone", cantava in "On The Beach".
The Loner, dunque. Un cowboy solitario lungo i sentieri più impervi del rock.
Fonte: ondarock.it