Nel giorno in cui antiche conoscenze che da antichi mondi derivano ci ricordano che un’ enorme pietra può essere spostata perché una nuova luce pieghi le tenebre e porti la vita tra gli uomini, compie 70 anni un uomo che con le sue parole e le sue idee ne ha spostati tanti di macigni.
Li ha resi friabili come sabbia perché non pesassero più sui nostri cuori e li ha fatti volare oltre l’azzurro della tenda, resi leggeri ma enormi dalla poesia della sua musica, quella con cui ci ha permesso di buttarlo tra le stelle senza paura di vederlo cadere.
“Per brevità chiamato artista”, come titola uno dei suoi ultimi album, è stata “tutta una vita da arrampicare” quella di Francesco De Gregori, da quando a 15 anni imbraccia la chitarra per non separarsene più, rendendola una protesi con cui accompagnare quell’ incessante ricerca di avvicinare il più possibile le parole alla realtà, quella polimorfica, a volte spaventosa, a volte imperscrutabile, dell’intima complessità di essere uomini e donne in una storia e in un paese che ha avuto spesso bisogno di pentagrammi per elevarsi a posto migliore.
Dagli anni Settanta voce e chitarra con cui “scrivere una lunga poesia per le tue braccia”, evidente dichiarazione di intenti scritta da subito in un “Giorno di pioggia”, perché tutti sapessero che le poesie non si cantano solo con la bocca ma bisogna “imbracciarle”, far vibrare delle corde, usare anche le mani perché diventino parte di noi e dono per gli altri.
«Le parole sono importanti, ma chi cerca solo quelle può trovarle nei libri. Per me l’attrattiva più grande la dà la musica. Una canzone è un ibrido, le si chiede leggerezza, può commuovere o diventare il punto di riferimento di una vita. Ti ricorda momenti. Ma basta toccare la chitarra in un modo diverso e cambia tutto».
Tra i suoi primi album dei 49 prodotti in circa mezzo secolo di attività, due avevano per titolo il suo nome e cognome, quasi come a raccontare agli altri (ma forse prima a sé stessi), la primaria necessità di identificarsi con la propria immaginazione, con le parole cercate, le note scoperte, con un modo di intendere la musica che renda le contraddizioni più vicine, la propria identità in quegli anni meno annebbiata, persino tra le correnti del mare nero come il petrolio, in mezzo al fumo del vapore da una cabina del Titanic.
Far rimanere qualcosa, tra le pagine chiare, anzi imprimerlo su quelle scure, tra gli alibi e le ragioni contaminati dagli amplessi ideologici degli anni Settanta, in cui i concerti potevano trasformarsi in processi, i palchi diventare più roboanti delle tribune politiche e le parole essere rapaci o farfalle sulle cui ali far volare sentimenti e obiezioni, dissensi e denunce. O semplicemente tutto l’amore di cui si aveva un disperato bisogno.
I versi di Francesco De Gregori camminano dentro di noi su pezzi di vetro, si siedono tra i ricordi vicini, i rumori lontani, raccontano “storie di ieri”, di generali dietro la collina e di giocatori che non hanno vinto mai, di ragazzi del borgo cresciuti troppo in fretta o di uomini che vivono ad Atlantide con un cappello pieno di ricordi, ma ciò che di più prezioso raccontano è che la storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere, noi che abbiamo tutto da vincere e tutto da perdere, tanto quanto la voglia di voler cantare: Viva l’Italia con gli occhi aperti nella notte triste, viva l’Italia, l’Italia che resiste.
E ora che ha compiuto 70 anni, chissà quanti sguardi ancora porterà con se nella valigia dell’attore, quante volte si chiederà lo strano effetto che fa la sua faccia dentro i nostri occhi e quante volte ancora canterà che “siamo venuti per poco, perché per poco si va”.
Buon compleanno Francesco, continua a buttare questo tuo enorme cuore tra le stelle.
Aspetteremo ancora che dalla bocca del cannone possa uscire una tua canzone.